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‘Ndrangheta, i Piromalli e la svolta militare

Di Mario Meliadò il . Calabria, Dai territori

Capacità 2.057 litri, bel look grintoso, color nero metallizzato. Ma praticamente senza più parte anteriore. Era la Mercedes “R” di Nino Princi subito dopo che qualcuno dei Piromalli, con ogni probabilità, aveva fatto saltare in aria l’imprenditore del settore-abbigliamento nel cortile di casa sua, lungo la statale “111”, nel cuore di Gioia Tauro.

Sì, Gioia Tauro come Beirut. Ed è chiaro che non volevano dire questo, i governanti regionali e gli osservatori delle cose economiche, quando dicevano che la città del porto più importante d’Europa per movimentazione-container doveva guardare di più all’Oriente.
Per 12 lunghissimi giorni Princi l’ex vicepresidente dell’Us Catanzaro, Princi il cognato di un altro importante imprenditore come Pasquale Inzitari (a lungo vicesindaco di Rizziconi e consigliere provinciale, solo un mese fa candidato al Senato per l’Udc, contitolare di uno dei centri commerciali più importanti della Calabria, “Il Porto degli Ulivi”), Princi l’affine di Rocco Molè – presunto boss eliminato nel febbraio scorso dai clan gioiesi rivali, un delitto che fece accorrere decine d’investigatori superqualificati e destò un enorme allarme sul possibile innesco di una clamorosa faida di ‘ndrangheta nella Piana tirrenica – ha lottato ancora per la vita agli Ospedali Riuniti. Ma il pomeriggio del 7 maggio ha dovuto cedere.
«Purtroppo. O per fortuna», commenta qualche addetto ai lavori con una punta d’inevitabile cinismo. Infatti, è vero, Antonino Princi ha venduto cara la pelle: quel sabato mattina maledetto chi ha azionato quell’autobomba “libanese”, con l’esplosivo piazzato sotto il paraurti anteriore del Suv dell’imprenditore (tutto scientifico: potenziale non altissimo al punto da fare una strage ma sufficiente ad ammazzare, giorno prescelto tra gli unici due della settimana in cui l’ex vicepresidente del Catanzaro non andava ad accompagnare la figlia a scuola nel capoluogo di provincia), ha premuto il telecomando quando il bersaglio predeterminato era già molto vicino ad aprire la portiera dell’auto. Ma non abbastanza vicino da morire sul colpo.
Abbastanza, però, per essere travolto dalla deflagrazione e riportare lesioni gravissime che hanno condotto all’amputazione di tutti e quattro gli arti e a una menomazione irreversibile della vista un imprenditore che, forse, non aveva chiesto le debite “autorizzazioni” per il suo “posto al sole” nell’ambìto settore della grande distribuzione. Anche se le ipotesi, come vedremo, sono molte di più e assai più articolate.

I giorni di strazio dei parenti sulla porta del reparto Rianimazione dei Riuniti, a Reggio Calabria, fa il paio coi punti interrogativi stampati sulle facce degli inquirenti. Un “filo rosso” già emerge: l’ingordigia del clan Piromalli e qualche – come dire? – “incomprensione” avrebbero portato alla rottura con l’altra metà del ticket criminoso che da sempre soggioga Gioia Tauro, quella dei Molè. E i Piromalli avrebbero pensato bene di farlo sapere ai superstiti con un’azione clamorosa. Tutto questo, a una manciata di giorni da una notizia attesissima diventata, infine, atto ufficiale: lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Consiglio comunale di Gioia.
Già la relazione sulla ‘ndrangheta della Commissione parlamentare antimafia aveva dipinto la cittadina tirrenica come un porto delle nebbie. Ma un nipote dello stesso sindaco Giorgio Dal Torrione (da tempo alle prese con la sua battaglia personale con una malattia difficile da debellare) sarebbe personalmente collegato ai clan egemoni sul territorio pianigiano; mentre un ruolo a dir poco inquietante rivestirebbe la società di riscossione-tributi che vede protagonisti i comuni di Gioia Tauro, Seminara e Taurianova (di qui l’acronimo Gioseta).
E poi, la scoperta fulminante: la rivalità montante tra Piromalli e Molé era in realtà da intendersi come un soprendente divorzio, coi Molé “sostituiti” dalla cosca sinopolese Alvaro nel ticket criminoso.

Negli stessi travagliati giorni, prendeva possesso del suo ufficio il nuovo procuratore capo di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, che in questo modo poteva ricomporre il “ticket” col capo della Squadra mobile della Polizia Renato Cortese: negli anni palermitani, i due furono tra i massimi artefici dell’arresto del Superlatitante per eccellenza, Bernardo “zu Binnu” Provenzano. Proprio la Piana di Gioia Tauro, l’omicidio Molè e l’agguato a Princi erano tra i casi più “caldi” sul tavolo della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria quando di bomba – stavolta, per fortuna, in senso metaforico – ne è esplosa un’altra: il rinvenimento di una microspia nell’ufficio di uno dei pm antimafia più impegnati, Nicola Gratteri, magistrato apprezzatissimo anche sul fronte letterario (tanto da avere appena vinto il premio “Biagi” per i saggi scritti col giornalista italo-canadese Antonio Nicaso, come Fratelli di sangue). Di sua competenza inchieste delicatissime; non ultima, quella sulla terribile strage di Duisburg davanti al ristorante-pizzeria “Da Bruno”, appendice teutonica della faida di San Luca.
La sofisticata “cimice” è stata scoperta grazie alla quasi immediata bonifica chiesta da Pignatone per via dei segni d’effrazione sulla porta del suo stesso ufficio. L’episodio non è rimasto senza conseguenze: sul versante strettamente giudiziario è stata aperta un’inchiesta da parte della Procura di Catanzaro, seguita dal pm Salvatore Murone. E pochi giorni dopo l’imbarazzante rinvenimento, la Prima commissione del Csm (presidente, Antonio Patrono) ha setacciato per un’intera giornata i “veleni” dei corridoi di Palazzo di giustizia, raccogliendo tra l’altro anche giudizi molto severi («E’ chiaro che il clima non è buono», ha dichiarato tra l’altro il procuratore generale presso la Corte d’appello reggina, Giovanni Marletta). Quasi drammatico il verdetto di Patrono, al termine della visita in riva allo Stretto: sono emersi nitidamente in seno alla Procura quei contrasti («rapporti che debbono essere affinati») che già in passato determinarono la lacerante apertura di vari fascicoli a Palazzo dei Marescialli. E soprattutto, rispetto allo stesso collocamento della microspia, per i commissari «potrebbe esserci stata qualche connivenza interna». Un’ammissione gravissima, sulla quale ogni commento risulterebbe superfluo. Anche perché una cosa è apparsa chiara ai membri della commissione del Consiglio superiore della magistratura: che, in tutti i casi, il Centro direzionale ha un «enorme» problema di “tenuta stagna” degli uffici, in termini di sicurezza.

Patrono, Fabio Roia & C. nemmeno se n’erano andati, che già esplodeva la terza “bomba” (virtuale anche questa): i due pesantissimi arresti dell’operazione “Saline”. Il 7 maggio la Dia di Reggio Calabria, in collaborazione con Squadra mobile e carabinieri della Compagnia di Gioia Tauro, ha eseguito le ordinanze di custodia cautelare nei confronti del politico e imprenditore Pasquale Inzitari e di Domenico “Mico” Rugolo, presunto capo dell’omonima cosca di Castellace, frazione di Oppido Mamertina.
Misura cautelare-shock, quella a carico di Inzitari: a lungo consigliere provinciale dell’Udc, per alcuni mesi in predicato di assumere la segreteria provinciale del partito, primo dei non eletti centristi per poche decine di voti alle Regionali 2005, sempre per il partito di Pierferdinando Casini era stato candidato al Senato (posizione numero 3: dopo il “colonnello” D’Onofrio e il sostanziale leader calabrese del partito, Gino Trematerra) giusto poche settimane fa. E (prendere nota) Pasquale Inzitari era stato anche fra i pochi a difendere, comprensibilmente l’onorabilità di Nino Princi, ripudiando “a caldo” le accuse di ambiguità nei confronti del cognato, nelle ore successive all’esplosione dell’autobomba.
Ma un terzo arresto doveva essere eseguito nei confronti di Domenico Romeo (latitante); e analoghe misure cautelari erano state richieste anche per Rosario Rugolo e soprattutto per lo stesso Nino Princi: sì, l’imprenditore dell’attentato “libanese”, deceduto pochissime ore dopo l’arresto di Inzitari e Rugolo senior.

Quanto sottoscritto dal giudice per le indagini preliminari parla chiaro: Princi avrebbe «diretto» l’associazione mafiosa sorta nell’ambito del clan Mammoliti-Rugolo, «soprattutto nel settore economico, attraverso l’acquisizione di beni e la partecipazione a iniziative imprenditoriali».
Ce ne sarebbe forse già abbastanza per tratteggiare l’eventuale movente dell’eclatante uccisione dell’imprenditore di Gioia Tauro; in realtà, però, c’è di più. Perché proprio Nino Princi (con Inzitari e Rosario Vasta, suo socio nella Devin, società titolare del “Porto degli Ulivi”) avrebbe in sostanza “venduto” alla Squadra mobile il superboss di Rizziconi Teodoro Crea (ormai in carrozzella, dopo un attentato subìto). L’ex “numero 2” del Catanzaro potrebbe dunque essere finito nel mirino per ritorsione rispetto alle sue delazioni.

Ma il quadro tracciato dagli inquirenti è di una vicenda d’«immenso squallore», per dirla con le dure parole utilizzate da Pignatone al momento di una conferenza stampa in cui – emblematicamente – il procuratore reggino ha voluto insieme Dia, Polizia e Carabinieri, ma pure il procuratore aggiunto e coordinatore della Dda di Reggio Calabria Salvo Boemi e il pm Roberto Di Palma, che da anni si occupa delle inchieste più scottanti che riguardano la tirrenica reggina. Il quadro sarebbe questo: Inzitari & C. pagavano tranquillamente la “mazzetta” al clan Crea, egemone a Rizziconi. A un tratto però, con l’aiuto di Mico Rugolo, hanno pensato di liberarsi del capobastone Teodoro Crea con due risultati diversi: la denuncia penale del politico udiccino nei confronti di chi gli chiedeva il “pizzo” portò all’accoltellamento del figlio (ma anche alla condanna di Crea in primo grado), mentre il cuneo-Rugolo si manifestò con l’inserimento come quarto socio “occulto” Devin al 16% dello stesso Princi (genero di Rugolo). L’azienda fu poi venduta per 11,6 milioni di euro al Credit Suisse, nell’estate 2007: tanto che il 16% dei proventi della vendita (2,8 milioni) è stato sequestrato dalla Dia nell’ambito della stessa operazione.
Ed ecco, sempre secondo gli investigatori, il più vibrante momento della tensione tra le locali cosche della ‘ndrangheta. Da un lato, un clan (i Crea) che non s’era fatto scrupolo di chiedere il “pizzo”, sul proprio territorio, neppure ai rampolli del clan rivale (a un Rugolo, prima per un appalto in materia di viabilità, poi per l’esecuzione dei lavori da circa 500 milioni di euro relativi alla centrale elettrica a turbogas di Rizziconi). Dall’altro lato, un clan di Oppido Mamertina (i Rugolo) che – un po’ sorprendentemente considerate le leggi non scritte di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i numi tutelari delle ‘ndrine – non tituba nell’infiltrare, con le proprie attività illecite, il territorio di Rizziconi controllato da altra cosca (appunto, i Crea). Come le truppe del re di Prussia a marciare su e giù per i confini austroungarici… Una chiara provocazione.

Nell’operazione “Saline” ci sono tante spigolature importanti.
Intanto, il nome: dopo l’operazione condotta sul centro commerciale di Rizziconi, infatti, i Rugolo (al solito, tramite Nino Princi) ne preparavano un’altra nella frazione balneare di Montebello Jonico. Nella terra delle incompiute, emblema su tutte: la Liquichimica, la ‘ndrangheta voleva accaparrarsi delle Ogr, le Officine grandi riparazioni di cui i governi Amato prima e Berlusconi poi non furono in grado d’evitare la chiusura, per farne un altro centro commerciale più grande ancora del “Porto degli Ulivi”.
E poi, le rivelazioni-cardine: sono state fornite da due collaboratori di giustizia, Girolamo Biagio Bruzzese (cioè l’uomo dei Crea-Franconieri-Bruzzese che sparò a Teodoro Crea riducendolo su una sedia a rotelle)e Saverio “Saro” Mammoliti. E proprio Bruzzese, ad esempio, rivela in un interrogatorio un particolare che poi emerge come metodo sistematico: i Rugolo, a Castellace, spesso e volentieri proteggevano latitanti della cosca alleata-rivale dei Crea. …Come lui. Mentre Princi sarebbe stato contemporaneamente un usuraio, un confidente della Polizia che però faceva «il doppio ruolo», insomma il doppio gioco, dando una parvenza di legalità alle operazioni spesso spregiudicate compiute per conto dei Rugolo, e riciclandone con efficacia il denaro sporco. Nino Princi l’emergente nel settore grande distribuzione, Princi l’imprenditore che reggeva i destini economici del clan. E ha finito per pagarne il conto.

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