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Nei pizzini di Matteo Messina Denaro: lo Stato ha vinto una battaglia ma la guerra è ancora aperta

Di Rino Giacalone il . Dai territori, Sicilia

Nella lotta alla mafia c’è un dato, riguarda l’assottigliarsi delle collaborazioni, cosa che comunque non ha portato ad una involuzione nelle indagini antimafia, anzi ugualmente sono stati fatti passi in avanti. E il super boss latitante Matteo Messina Denaro nei suoi “pizzini” conferma le valutazioni degli inquirenti, esaltando la “fedeltà” degli uomini d’onore a lui più vicini, ma riconosce anche i colpi inferti (come scritto nel famoso pizzino trovato in possesso di Bernardo Provenzano al momento dell’arresto di questi, l’11 aprile del 2006) “qui dopo che hanno arrestato gli uomini arresteranno anche le sedie dove questi stavano seduti”.

Il pensiero aggiornato sui fedeli a Cosa Nostra esce fuori dagli ultimi “pizzini” recuperati dalla Polizia. Sono quelli che fanno parte del carteggio trovato in possesso dell’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino. “Quando uno stato ricorre alle torture per vendetta, quando porta alla delazione gli esseri più deboli, mi dica che stato è, uno stato che fonda la sua giustizia sulla delazione che stato è, di certo le delazioni hanno fatto fare carriera a certi singoli ma come istituzione lo stato ha fallito. Hanno istituito il 41 bis (carcere duro ndr), che mettano anche l’82 quater, tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità”.

L’ultimo degli uomini d’onore di questo stampo potrebbe essere stato quel Pino Clemente di Castelvetrano, 42 anni, che ha deciso di farla finita in un bagno del carcere di Torino dove scontava l’ergastolo per essere stato uno dei killer dei Messina Denaro. Il suo suicidio però non è ancora chiaro da leggere. La fedeltà fino all’estremo sacrificio nei riguardi di Matteo Messina Denaro, oppure l’uccidersi nel giorno del compleanno del capo mafia latitante, 26 aprile, (Messina Denaro quel giorno ha compiuto 46 anni, 15 dei quali trascorsi da latitante) è stato un regalo per suscitare rimorso nel boss, dopo che Clemente ha scoperto che il credo che aveva avuto inculcato era completamente infondato e falso. Uccidersi perché forse nella strada del pentimento non ha incontrato le giuste misure, cosa che peraltro è stata messa in evidenza dall’associazione dei familiari delle vittime della strage di Firenze del ’93 (firmata da Messina Denaro), che ha sottolineato come oggi lo Stato non agevoli più chi vuole passare dall’altra parte della barricata.

Nel 2005 però Messina Denaro scriveva ancora quasi filosoficamente, e non c’è ragione di ritenere che il pensiero sia mutato: “Non ha nulla di civile questo paese fino a quando certe verità non verranno a galla, la storia la scrive che vince e loro hanno vinto, c’è solo  da prendere atto della sconfitta restando nella propria dignità, la sconfitta semmai ci forgia come veri uomini”. Non sono parole di resa, scrive di sfide, “che non sono quelle delle scartoffie, non è questo il mio costume”, passaggio che si accompagna a quella frase che suscita grande gelido, “si sentirà parlare ancora di me” e certamente il riferimento non è ai murales di questi giorni, la storia del personaggio ci dice che sono ben altre, tremende, le cose che fanno parlare di lui.

 

 La resa è per un capitolo della battaglia, c’è una guerra che la mafia vuole continuare. E non può accadere che, come detto dal pm della Procura di Trapani Andrea Tarondo a fine di una requisitoria, ogni volta che la guerra poteva essere vinta lo Stato puntualmente si è tirato indietro lasciando da soli i suoi uomini migliori. E’ successo di continuo questo, l’ultima volta a Trapani nel 2003 quando l’allora Governo Berlusconi diede il foglio di via al prefetto Fulvio Sodano, trasferito da Trapani ad Agrigento, che si era contrapposto nel trapanese ai mafiosi vestiti da imprenditori. Una pagina giudiziaria ancora da scrivere.

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