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Quel percorso nato in Sicilia e arrivato nella capitale

Di Norma Ferrara il . Dai territori, Sicilia

“Questa giornata in Campidoglio non è una passerella per giornalisti o politici, molti dei quali hanno abbandonato la sala dopo i primi interventi, ma è – afferma a gran voce il presidente dell” Unci Sicilia, Leone Zingales –  la prima tappa di un percorso fortemente  voluto e cercato dai cronisti siciliani in primis e che ha portato il 5 gennaio del 2005 alla nascita di un Giardino della Memoria, proprio a Palermo, dove per la prima volta Associazione nazionale dei magistrati e giornalisti hanno piantato insieme alberi in memoria di colleghi che hanno perso la vita nella lotta alle mafie”.

 

Otto voci spente dell’informazione in soli 30 anni nella stessa regione, la Sicilia, sono numeri che non trovano corrispondenza alcuna con le altre democrazie alle quali siamo soliti paragonarci. E’ Leone Zingales, Unci Sicilia, a spiegare nel suo discorso quanto lungo e tortuoso sia stato il percorso intrapreso per arrivare all’istituzione di questa giornata  (proposta di legge 5 giugno 2007). E nel suo intervento ci sono dentro amarezza, soddisfazione e voglia di continuare.

 

 Le stesse che hanno animato l’intervento di Alberto Spampinato*, oggi quirinalista dell’Ansa, e fratello di Giovanni Spampinato, giovane cronista dell’Ora ucciso a Ragusa nel 1972. E’ anche grazie al suo impegno  se negli ultimi anni insieme all’ Ordine dei giornalisti e alla Fnsi queste storie dimenticate, quasi per disagio, hanno acquisito pieno diritto di cittadinanza dentro la memoria collettiva di un Paese ma soprattutto della categoria alla quale appartengono, quella dei giornalisti. Ad Alberto Spampinato abbiamo chiesto la ragione di questi lunghi e imbarazzanti anni di immobilismo della memoria:

 

Perché  più di 30 anni di ricordi frammentati e circoscritti ci hanno separato dall’istituzione di una giornata come questa e perché anche in Sicilia il processo di riappropriazione collettiva di questo sacrificio è stato così lungo?

 

Ci sono stati, è inutile negarlo, una serie di fattori concomitanti, ma uno in particolare mi sembra sia stato l’impedimento principale: lo scontro ideologico. Per tanti anni, anche la morte di mio fratello non era la storia di un brillante cronista che scriveva troppo su Ragusa e sull’ omicidio Tumino, ma quella di un comunista. Come tale, in una Ragusa lontana da alcune istanze che oggi invece cominciano ad animarla, non andava ricordata, restituita ai fatti; non era necessario  accertarne le responsabilità. In molti fra gli otto giornalisti uccisi sono rimasti imbrigliati in questo meccanismo che ha portato ad un ricordo di parte, frammentato. Molti di loro vengono ricordati da premi giornalistici, da giornate a loro dedicate da familiari e colleghi che hanno il merito di averne tenuto vivo il ricordo ma per altri non ci sono stati nemmeno questi. E soprattutto per tutti è mancato un momento solenne, unitario,  a loro dedicato per ricordare che sono morti nell’esercizio di uno dei cardini fondanti della democrazia, la liberà di espressione.

 

Otto storie di colleghi, caparbi e soli, morti in una sola regione la Sicilia dal dopoguerra ad oggi. A  distanza è possibile informare liberamente nella terra di Cosa nostra?

 

Direi che c’è una Sicilia divisa in due mondi, sotto questo aspetto. Quella delle grandi città dove, seppure con tutta una serie di difficoltà e distorsioni che persistono, si riesce a fare il proprio lavoro e una Sicilia periferica, quella di province (come la stessa Ragusa) nella quale ci sono ancora sfere di influenza altissime, c’è isolamento, solitudine. Qui, nonostante si registri in alcuni giovani una innata sensibilità verso argomenti un tempo lontani ai colleghi più anziani, informare liberamente rimane ancora una conquista lontana.

 

Sui cronisti siciliani, specie quelli delle province dimenticate, pesa come un macigno la presenza di editori che si sono divisi equamente sfere d’interesse e aree di distribuzione; c’è un modo per ristabilire equilibri più sani in questo mercato editoriale per restituire ai colleghi più libertà d’informazione?

 

Sul versante degli editori possiamo fare ancora poco. Molto invece si può fare per quello che concerne la nostra professione, come ho ribadito oggi nel mio intervento in Campidoglio. Questi giornalisti, uccisi, feriti, intimiditi , minacciati, sotto scorta hanno scritto con il sangue una grande verità che dovremmo tenere sempre presente: il lavoro di cronaca fatto con indipendenza di giudizio e volontà di non lasciare nulla di intentato per dare ai lettori una informazione libera, completa e veritiera, non è una passeggiata ma è un lavoro che comporta difficili complicazioni e rischi non eliminabili. Con questo non voglio dire che i giornalisti debbano essere missionari votati al martirio, eroi che devono sfidare la morte, ma che quando c’è da correre qualche rischio, non possono trincerarsi dietro autocensura per quieto vivere o per paura. Se si trovano in uno stato di costrizione devono dirlo, devono renderne conto alla deontologia professionale. Io so per esperienza che un cronista può trovarsi in uno stato di costrizione, di minaccia, in intimidazione che lo costringe a tacere una notizia. Bisogna chiedersi oggi se può tacere anche il fatto di trovarsi in questa condizione. Io credo di no. Bisogna chiederselo pacatamente, seriamente, al di fuori delle situazioni di emergenza. 

  

* Alberto Spampinato è quirinalista dell’Ansa dal 1980, vive a Roma. E’ autore, fra gli altri,  del libro Vite Ribelli – dieci destini controcorrente, edito da Sperling e Kupfer e del  saggio Il ragazzo che scriveva troppo  contenuto nel volume fuori commercio “Giornata della memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo” presentato a Roma il 3 maggio scorso.

 

 

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