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Caso Alpi, il nodo della commissione bis. Dopo il voto si allontana una riedizione

Di Anna Foti il . Internazionale

Complessa l’indagine, articolata in tre filoni armi – rifiuti tossici – riciclaggio di denaro sporco, che lega l’Italia alla Somalia e, in particolare, Mogadiscio a Reggio Calabria. Un nesso, infatti, unisce l’omicidio della giornalista del Tg 3 Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hròvatin ai traffici illeciti, in cui sarebbero coinvolti servizi segreti, politici e mafiosi, su cui ha indagato negli anni novanta la Procura di Reggio Calabria.

L’agguato del 20 marzo 1994 a Mogadiscio, si incrocia infatti con un’importante inchiesta della procura reggina sullo smaltimento di scorie radioattive. Non è casuale che la Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Alpi, istituita nel 2003 dopo dieci anni di indagini inconcludenti della Procura di Roma e presieduta fino al 2006 da Carlo Taormina, abbia denunciato negli anni scorsi un tentativo di depistaggio delle indagini in cui, secondo gli inquirenti, sarebbero anche coinvolti malavitosi e trafficanti di armi calabresi.

Complesse le fila che sottendono questa corposa vicenda che, seppur stoppata da un’archiviazione, ha messo in luce un innegabile e, tuttavia, reso invisibile legame tra i fatti somali e un traffico di rifiuti radioattivi di dimensioni notevoli articolato in interramenti in località del sud Italia in vecchie cave o discariche, in affondamento di navi in zone extraterritoriali o nello smaltimento di rifiuti tossici presso paesi come il Libano la Somalia, la Nigeria, il Sahara ex- spagnolo.

Numerosi i passaggi che conducono a Reggio Calabria. Si parte dallo spiaggiamento sul litorale di Amantea della nave porta container ex – Jolly Rosso nel dicembre del 1990. Su di esso ha indagato il sostituto procuratore generale reggino Francesco Neri, per altro querelato, unitamente al maresciallo dei Carabinieri Nicolò Moschitta, al giornalista Riccardo Bocca e allo stesso faccendiere Giorgio Comerio punto di arrivo delle sue indagini, dall’ex presidente somalo Alì Mahdi.

Proprio nei giorni scorsi a Reggio Calabria è tornata a riunirsi la camera di consiglio per decidere sull’archiviazione. Gli intrecci tra Italia e Somalia hanno mostrato la loro tangibilità quando le indagini hanno condotto il pg Neri al nome di Giorgio Comerio, ingegnere titolare del progetto di smaltimento Oceanic Disposal Management, nell’ambito del quale venivano condotte operazioni insolite con navi dedite allo smaltimento di rifiuti tossici e al traffico di armi.

In forza di un progetto elaborato dall’Euratom per conto della Cee, scrive il procuratore Neri, Giorgio Comerio procedeva alla messa in custodia di rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in contenitori poi inglobati in siluri d’acciaio lanciati nei fondali marini sabbiosi e argillosi. Cominciava a delinearsi un asse di cooperazione Italia-Somalia, nell’ambito della quale la stessa Ilaria Alpi aveva scoperto muoversi ingenti flussi di denaro.

Intanto altri eventi eseguirono, tra cui la morte, avvenuta in circostanze sospette nel dicembre 1995, del valido collaboratore del procuratore Neri, capitano di corvetta, Natale De Grazia. Le numerose informative della Procura reggina, che non approdano ad alcuna condanna ma solo ad un’archiviazione delle indagini relativamente al filone dei rifiuti tossici sparati nei fondali marini, tuttavia rompono un silenzio pesante e lasciano aperta la questione relativa al certificato di morte della giornalista Ilaria Alpi, misteriosamente scomparso.

Se da un lato il prosieguo delle indagini relative alla presunta attività di affonda scorie e di traffici di rifiuti tossici passa alla competenza della procura di Paola, dove il pm Francesco Greco ha successivamente ritenuto di dover integrare le indagini sullo spiaggiamento della ex – Jolly Rosso, il giallo ancora colora l’altro elemento decisivo quale il “ritrovamento poi smarrimento” del certificato di morte di Ilaria Alpi nella cartella denominata “Somalia” in possesso dell’ingegnere Comerio.

Di questo il sostituto pg Francesco Neri ha riferito anche in sede di audizione dinnanzi alla Commissione di Inchiesta. Acquisito agli atti, in occasione della perquisizione, in casa del noto faccendiere e trafficante di armi, il certificato non fu più trovato. Sparito, come i tre taccuini e le foto di Ilaria e le cassette di Miran. Il suo mancato ritrovamento presso la procura di Reggio Calabria è costato al procuratore reggino Francesco Neri una denuncia per falsa testimonianza sporta dall’allora presidente della commissione di inchiesta Carlo Taormina.

Di recente il settimanale L’espresso, a firma di Riccardo Bocca, ha pubblicato un’altra sconcertante novità contenuta nella nota che il sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, Francesco Neri, ha rivolto al procuratore generale Giovanni Marletta alla fine dello scorso gennaio. In essa, infatti, si riferisce di una vera e propria manomissione del plico relativo all’indagine dalla quale sarebbero scaturite non solo la scomparsa del certificato di morte ma anche quella dei documenti di ben 11 carpette delle 21 numerate e un’alterazione della matrice dell’assicurata necessaria per provare la trasmissione degli atti alla procura di Roma.

Così, nonostante la dibattuta conclusione dei lavori della commissione parlamentare di Inchiesta nel 2006, per altro corredata da una relazione del presidente Taormina non appoggiata da tutti i componenti e non supportata da quella sul ciclo dei rifiuti della competente commissione parlamentare, resta assolutamente concreto e reale il sospetto di un duplice assassinio il cui movente potrebbe essere stato quello di salvaguardare il traffico di scorie radioattive in Somalia.

Mentre nelle aule del Parlamento, prima della caduta del governo Prodi, si era nuovamente riacceso il dibattito per l’istituzione di una nuova commissione di inchiesta, a sostegno di una verità ancora nascosta e di un caso ancora apertissimo, soccorre il provvedimento dello scorso dicembre del Gip Emanuele Cersosismo che ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Roma, nella persona del pm Franco Ionta, relativamente all’indagine bis sull’omicidio.

Ricordiamo infatti che dopo 13 anni di indagini la commissione giunse nel 2006, non unanimemente, alla conclusione per la quale nessun altro responsabile, oltre il miliziano somalo Hashi Omar Hassan condannato a 26 anni di carcere, poteva essere individuato, sostenendo addirittura che incidentali potessero essere le cause dell’assassinio. Ma l’accoglimento dell’opposizione della famiglia Alpi alla richiesta di archiviazione del pm Ionta, adesso riapre il caso e ordina allo stesso altri sei mesi di indagine su un omicidio che lo stesso gip Cersosimo non ha escluso possa essere stato commissionato.

Mentre si resta in attesa dell’esito di queste nuove indagini, forse una commissione tornerà al lavoro, forse no. Ciò che appare chiaro e che molti aspetti chiari non lo sono affatto. Poco confortante la mancata unanimità della commissione al momento delle conclusioni dei lavori, poco rassicurante l’assenza di risposte su questioni aperte cha Ilaria e Miran hanno lasciato in eredità, poco incoraggiante che l’unico a rispondere di responsabilità che sembrerebbero toccare livelli estremamente “alti” sia un miliziano somalo giunto in Italia per testimoniare la presunta violenza subita dall’esercito italiano durante la missione Restore Hope.

Ma soprattutto irrinunciabile il dovere di arrivare in fondo a questa storia che ha barbaramente spezzato la voce di due professionisti dell’informazione impegnati nel consegnare alla coscienza comune l’ennesima vergogna del nostro tempo, impegnati affinchè dignità potesse essere restituita ad un paese e ad un popolo, quello somalo, affinchè vite fossero salvate dalla guerra, dalle armi e dai rifiuti tossici, affinchè l’essenza della professione del racconto di storie e vite altrui riscoprisse la vocazione e la missione cui è chiamata: quella di servire la verità, sempre. 

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