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Bari, fu un’aggressione mafiosa quella ai miei danni

Maria Grazia Mazzola * il . Giustizia, Informazione

mazzolaIl giudice di Bari Giovanni Anglana ha messo un punto definitivo contro le accuse pretestuose e menzognere della mafiosa che mi aggredì il 9 febbraio scorso a Bari.

Una falsa dinamica dei fatti fu ventilata ai mestatori di fango travestiti da giornalisti che le fecero eco. Superata la serata della solidarietà generale e sentita delle Alte Cariche dello Stato, dei big dell’informazione, il giorno dopo spuntarono funghi avvelenati. Alcuni pennivendoli si erano scatenati a costruirmi – dietro input dell’appartenente al clan Strisciuglio – un ‘vestitino’ da giornalista aggredita di serie C: eh si, perché quella poverina della mafiosa era a lutto per la nonna morta e io avevo preso ‘quattro ceffoni’ perché me l’ero cercata, perché avevo molestato il dolore, perché avevo scampanellato a casa della poverina mafiosa e avevo sgomitato per entrare.

Tutto falso.

Aggredita con un pugno dalla boss di mafia Monica Laera, ero finita al pronto soccorso con lesioni accertate. Solo perché ponevo domande per strada – sul suolo pubblico – per un’inchiesta sui baby boss, legati ai clan ma anche sui ragazzi che lottando avevano opposto un bel “no” alle mafie.

Avevo anche documentato prima di Bari, il Programma Liberi di Scegliere, con Enza Rando avvocata e vice Presidente di Libera, con ragazzi strappati alla potestà genitoriale dei padrini calabresi, con le donne che avevano deciso di abbandonare i clan.

Quella mattina del 9 febbraio all’Oratorio dei Salesiani di Bari, avevo documentato l’incontro tra don Luigi Ciotti, don Francesco Preite – direttore dei Salesiani di Bari – e le scuole che erano andate là ad ascoltare il Fondatore di Libera. Nel pomeriggio ho subito l’aggressione.

Quell’aggressione fu mafia: tuonò la DDA di Bari, che ha riconosciuto – dopo alcuni mesi di indagini – l’aggravante mafiosa di quel cazzotto, le minacce di morte – tutto registrato dalle mie telecamere – le lesioni. Fu riconosciuto l’esercizio del controllo del territorio della Laera che ha familiarità col giubbotto antiproiettile. Se – come mostrano le immagini – non fossero intervenuti i parenti a bloccare le mani e il corpo della Laera, oggi non so se la racconterei.

Ora il GIP di Bari scrive che quelle dinamiche veicolate e perpetrate sono false. Tutte.

Il giudice scrive che fu esercitato il diritto di cronaca correttamente e nell’interesse pubblico, che le mie domande furono ‘appena accennate’, e tanto altro che mi fa giustizia.

Vedete, ci furono pennivendoli che all’indomani dell’aggressione offrirono ‘microfoni in libertà’ alla mafiosa, vestita per la festa e ben truccata, una donnina affranta dal dolore per il suo lutto, mentre il giorno prima con un’agilità felina si era scagliata contro di me. ‘Ti uccido se torni qua….’, precedono parolacce impronunciabili.

La mafiosa e i suoi legali diffusero false dinamiche ovunque. C’è la mafia come il clan Strisciuglio che tutt’ora domina il quartiere Libertà e poi ci sono quelli ai quali le menzogne dei mafiosi piacciono pur di mettere in cattiva luce una giornalista, donna, scomoda, che non appartiene ad alcuna lobby.

Il punto è centrale.

Buttarla in caciara pur di non riconoscere il valore di un/una giornalista scomodo/a fa comodo a tanti. Anche a certi sindacalisti che mi dissero pochi giorni dopo l’aggressione, che non rischiavo nulla a Bari, che potevo tornare in centro a mangiare i manicaretti pugliesi da sola…era stato un episodio casuale! Sembravo vittima di un’autosuggestione!

Oppure tutti quelli che si scatenarono in modo anglosassone a raccogliere la dinamica raccontata dalla boss e a sostenerla, nonostante le immagini diffuse la confutassero. Ci furono quelli che risero di questa aggressione. Quelli che tentarono di accreditare la versione di una mafiosa condannata in Cassazione per 416bis dandole la stessa dignità delle mie dichiarazioni. Compresa una vicecaporedattrice.

Non è una questione personale della quale sto parlando: ma si tratta di una diffusa compromissione dell’integrità informativa che arriva ai cittadini. Una compromissione che avviene in tanti altri fatti nei quali non è affermata la verità. I fatti deformati alimentano la mentalità mafiosa, veicolano cibo avvelenato per le coscienze collettive.

Quanti hanno capito cosa accadde il 9 febbraio scorso a Bari? Quanti hanno capito che questa importante archiviazione di querela e denuncia non sarà diffusa come la versione della mafiosa? Quel 9 febbraio ponevo domande su Ivan Caldarola, figlio di due boss: madre Laera e padre Caldarola in carcere anche lui condannato per mafia, fratello condannato per omicidio.

Su Ivan Caldarola vigeva il silenzio stampa per il rinvio a giudizio per stupro nei confronti di una bambina di dodici anni. Nessun giornale seguiva quella vicenda. Silenzio assoluto sul rampollo in ascesa. Il figlio del boss ha potere di fare ciò che vuole. Silenzio.

Ho rotto quel silenzio e si è fatta luce sul potere di una famiglia oscura. Ivan Caldarola è stato in seguito arrestato per spaccio di droga, detenzione di armi ed estorsione.

Il Redentore dei Salesiani di don Francesco Preite va avanti a fatica nell’impegno della legalità con i ragazzini. Perché l’arroganza del clan è forte e ancora lo Stato non lo ha capito bene quanto dal momento che non presiede il territorio come si deve. Occorre mandare assistenti sociali presso le famiglie più deboli.

Il territorio si presiede, soprattutto attorno alle scuole e dove vivono i minori. Per sostenere gli operatori e i volontari del sociale, per dare la forza ai minori più deboli di rimanere nella legalità e di non essere trainati dai clan.

La giustizia va affermata e la verità va proclamata per spazzare quelle menzogne che a tanti possono fare comodo.

* Inviata speciale del TG1

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