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Trapani, ecco la borghesia mafiosa

Rino Giacalone il . Mafie

trapaniPolizia e Guardia di Finanza a Trapani hanno eseguito una maxi confisca di beni per oltre 21 milioni di euro, eseguendo un decreto emesso dal Tribunale delle misure di prevenzione che ha colpito gli imprenditori Francesco e Vincenzo Morici, padre e figlio. Francesco Morici era uno dei più noti costruttori siciliani, è deceduto nel corso del procedimento, al suo erede, l’ingegnere Vincenzo Morici, ex presidente del sindacato degli edili di Confindustria, da tempo emigrato a Gibuti dove ha preferito andare a lavorare dopo l’avvisaglia delle prime indagini, i giudici, non considerandolo socialmente pericoloso, non hanno applicato la sorveglianza speciale, ritenendolo non tanto al pari del padre in contatto così diretto con la potente Cosa nostra trapanese capeggiata dal latitante Matteo Messina Denaro. Un lavoro meticoloso, certosino che ha portato i giudici (presidente del collegio Messina, a latere Badalucco e Cicorella) a ritenere oltremodo fondati i rapporti investigativi condotti a cominciare dal 2004 dalla Divisione Anticrimine della Questura di Trapani e dal nucleo di polizia economica della Guardia di Finanza. Nel 2012 il gruppo imprenditoriale dei Morici fu colpito dal sequestro preventivo, un blitz che andò sotto il nome “Corrupti mores”, comportamenti corrotti, adesso è arrivata la confisca. Imprenditori i Morici che non appartengono a Cosa nostra ma come ha ricostruito nel corso del procedimento il pubblico ministero Andrea Tarondo, il magistrato che da anni dalla frontiera inquirente trapanese segue le indagini sui rapporti tra mafia, politica e imprese nelle Sicilia occidentale, sono da inquadrare quali esponenti della “borghesia mafiosa” trapanese, appartenenti a quell’area grigia contigua a Cosa nostra e pronta a veicolare i contatti tra politici e la mafia. Trapani, si conferma da questa confisca, è terra dove più che gli uomini in coppola e lupara almeno nell’ultimo ventennio hanno preso piede nella gestione degli affari illeciti i cosiddetti “colletti bianchi”. In oltre 600 pagine i giudici  hanno ricostruito una tela incredibile di rapporti e relazioni, di appalti pilotati e gare truccate. Ad essere finiti sotto il controllo di Cosa nostra sono stati i lavori per rendere idoneo il porto di Trapani ad accogliere nell’autunno del 2005 le gare preliminari della Coppa America di vela, o ancora la costruzione della funivia che collega la città di Trapani con l’antico borgo medievale di Erice, e ancora altri lavori, il risanamento del lato nord della città, le antiche mura di Tramontana, la realizzazione in mare di barriere soffolte, lavori sull’isola di Favignana, sistemazione dell’edificio che ospita l’ospedale provinciale. Ripristino di basolati, di fognature e di servizi primari, interventi finanziati dall’ente Provincia, la mafia attraverso questi imprenditori ha messo il suo marchio. In una città, un territorio provinciale, dove si persevera a marginalizzare il fenomeno mafioso come ha evidenziato nella discussione finale il pm Tarondo. Imprenditori indicati come “collusi” con esponenti delle cosche mafiose, appartenenti al cerchio della holding nel tempo controllata dal latitante Matteo Messina Denaro. Imprenditori che hanno condizionato il libero mercato degli appalti, che hanno partecipato all’aggressione del sistema delle gare pubbliche, recitando, ma dicono i giudici solo recitando, la parte degli imprenditori vittime di Cosa nostra. Alcuni danneggiamenti, anch gravi, li hanno subiti, ma sono risultati la vendetta di Cosa nostra per non avere i Morici rispettato in talune occasioni il patto del “pizzo”, che a Trapani , hanno fatto emergere i giudici, è più che altro una sorta di quota associativa a Cosa nostra, o anche l’accordo di corruttela con i funzionari pubblici che li avevano agevolati nelle gare. Denunciavano dicendo di non sapere chi poteva essere stato , intercettati venivano ascoltati a parlare con cognizione di causa, chiedendo quindi “protezione” ai boss, come all’imprenditore “regista delle aggiudicazioni pilotate” degli apppalti della Provincia, Tommaso Coppola, quello che un giorno dal carcere dove era finito mandò un messaggio a Ciccio Morici ricordandogli che si stava facendo la galera anche per lui. Per ogni appalto che i Morici si sono aggiudicati attraverso la loro principale impresa, la Coling, sono stati indicati nel decreto i nomi dei mafiosi e dei politici di riferimento. I capi del mandamento trapanese Vincenzo Virga prima e Francesco Pace dopo, e per la politica il nome maggiormente emerso è stato quello dell’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì, l’ex senatore sotto processo a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa e destinatario pure di una proposta di obbligo di dimora a Trapani. Ma nell’elenco sono finiti anche l’ex vice presidente della Regione Bartolo Pellegrino, finito prescritto per corruzione, per avere intascato una mazzetta fattagli arrivare da Cosa nostra, e vicino ai Morici è stato indicato anche l’attuale assessore regionale Girolamo Turano. Per i giudici quello scoperto è il sistema di fagocitazione degli appalti che ha funzionato a Trapani a cominciare dai primi anni del 1990. Il sistema che ha permesso di materializzare quella convivenza tra mafia e imprese, tra mafia e pezzi delle istituzioni. E il caso vuole che in un cantiere finito controllato da Cosa nostra attraverso i Morici , quello per le nuove banchine del porto di Trapani, nel 2005 arrivò a guardare i lavori in corso l’allora ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, il ministro che nel 2001 incautamente parlò della necessità di trovare convivenza con le mafie. A riceverlo furono le autorità, ma c’erano, a sua insaputa, anche i mafiosi. Alla famiglia degli imprenditori Morici sono stati confiscati 52 appartamenti, 9 villini, 11 magazzini; 8 terreni; 19 garage, autovetture, conti correnti e società, beni. 

fonte la stampa.it

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