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Verso la sentenza di Aemilia, la parola all’accusa

Sofia Nardacchione il . Mafie

487394-thumb-full-720-video_pm_marco_mescolini_processIl primo grado del maxiprocesso Aemilia è giunto alla sua ultima fase. Si è chiusa quella dibattimentale e ha preso il via la requisitoria dei Pubblici Ministeri Marco Mescolini e Beatrice Ronchi. Una requisitoria che prende in considerazione tutti i fatti principali di questi due anni di dibattimento, sfociando anche in casi che sono al centro dei tanti filoni del processo che si sono aperti dopo quel 28 gennaio del 2015: dal rito abbreviato fino a Aemilia bis, Aemilia ter, Reticolo, Aemilia 1992.

La convenienza dell’associazione mafiosa

Martedì 15 maggio nell’aula bunker del Tribunale di Reggio Emilia ha iniziato così le conclusioni il PM Marco Mescolini che, in apertura, ha affermato che basterebbero le dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia – Antonio Valerio, Salvatore Muto, Giuseppe Giglio – per condannare gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, grazie a tantissimi dati “che fanno pendere la bilancia verso l’impossibilità di giungere a conclusioni diverse da quelle che noi abbiamo indicato”. E l’accusa ripercorre anche i fatti più significativi da questo punto di vista accaduti in aula durante lo svolgimento del processo: testi minacciati, testi che non parlano, due operai che lavoravano per la “Bianchini Costruzioni s.r.l.” che hanno ritirano le dichiarazioni precedenti negando ci fossero state minacce.

Parte subito dopo l’accusa a coloro che si sono messi a disposizione dell’associazione ‘ndranghetista emiliana: gli affiliati alla cosca “sono sempre riusciti a fare quello che hanno fatto perché qualcuno ne ha notato la convenienza”. E, continua, “non c’è la minaccia, è conveniente”. Insomma, in tutti i casi c’era la consapevolezza di essere di fronte a una associazione mafiosa e in tutti i casi c’era anche la volontà di farne parte, all’interno di un sistema di false fatturazioni, reimpiego, usura, che aveva bisogno di professionisti dalla faccia pulita per poter funzionare.

Sono tanti i personaggi che si sono messi a disposizione della cosca emiliana, molti dei quali già condannati nell’appello dei riti abbreviati per concorso esterno in associazione mafiosa. Insieme a questi l’associazione necessitava – come ha affermato Beatrice Ronchi – di “imprenditori spendibili all’interno del sodalizio, per creare agganci con la società civile”. Tra questi, secondo l’accusa, c’è anche Giuseppe Iaquinta, spendibilissimo a livello pubblico in quanto padre del calciatore Vincenzo. Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Valerio, Iaquinta, oltre ad avere rapporti quotidiani con gli uomini del clan, avrebbe reperito ditte disponibili alla falsa fatturazione, nodo centrale degli affari degli ‘ndranghetisti.

Ma le vicende di ‘ndrangheta si estendono a tutta la famiglia: secondo il collaboratore Salvatore Muto, la ‘ndrangheta sarebbe intervenuta nel 2007 e nel 2011 per far giocare Vincenzo Iaquinta, che non veniva più schierato dagli allenatori, mentre era nelle squadre, rispettivamente, dell’Udinese e della Juventus. In quest’ultimo caso probabilmente il tentativo di condizionamento non andò a buon fine: Vincenzo Iaquinta, infatti, fu prima ceduto al Cesena e poi si ritirò.
Durante l’Operazione Aemilia, inoltre, in casa del calciatore furono trovate diverse armi, che sarebbero state utilizzate dagli uomini di ‘ndrangheta: una strategia non nuova all’associazione mafiosa, che detiene armi con l’aiuto dei parenti. Iaquinta avrebbe, insomma, permesso alla consorteria di detenere armi.

La strategia criminale della cosca emiliana dal carcere

Nella seconda delle tre udienze occupate dalla requisitoria, il 17 maggio si è ripercorso un altro importante fatto, emerso solo nel febbraio scorso all’interno del processo: come ha affermato il PM Beatrice Ronchi, “dopo l’operazione Aemilia la consorteria è rimasta operativa con azioni importanti fuori e dentro il carcere. Ci hanno dato una grande mano i collaboratori. Tutti e tre hanno potuto vivere in diretta da detenuti per alcuni mesi e per alcuni anni dopo il 2015 le strategie, le condotte da ruolo apicale, i movimenti della consorteria emiliana colpita ma non affondata da Aemilia”. E, continua, “senza ombra di dubbio è emerso una strategia che travalica la lecita difesa processuale ordita dai vertici dell’associazione criminale, strategia della intimidazione e del ricatto nei confronti di soggetti privati o istituzionali. Che avevano avuto legami leciti o illeciti con questi soggetti, al fine di poter prendere posizione favorevole al processo. E’ un inganno, una strategia della cosca che cerca di far passare sotto le spoglie del cutrese lavoratore in Emilia per qualcosa di diversa, che altro non è che ndrangheta. E’ un inganno. Strategia utilizzata per espandersi e per difendersi dopo l’operazione Aemilia”.

In questa strategia fondamentale è Gianluigi Sarcone, che avrebbe assunto dall’interno del carcere un ruolo di direzione e organizzazione, insieme a Sergio Bolognino: “Sarcone Gianluigi e anche Bolognino Sergio – dice in aula l’accusa – non solo esercitano una supremazia all’interno del carcere, ma inoltre Sarcone Gianluigi organizza piani di coordinamento, intimidazione dei testimoni al processo”.

Una strategia criminale, di cui hanno parlato anche i collaboratori di giustizia, che non si ferma al carcere, ma cerca di deviare il corso del processo: “indicazioni di quali testimoni citare, contenuto delle dichiarazioni spontanee, comportamento da tenere in udienza, abbandono dell’aula del 18 aprile 2017, appoggio agli scioperi degli avvocati, come quello del 23 maggio 2017, minacce nei confronti dei giornalisti”.

Sulle minacce ai giornalisti è importante ricordare la richiesta del 17 gennaio 2017 di Bolognino, che chiedeva, a nome di tutti gli imputati, che il processo procedesse a porte chiuse, con l’esclusione di tutti i giornalisti dall’aula. Secondo gli imputati, i giornalisti farebbero un linciaggio mediatico nei loro confronti distorcendo le notizie: “ogni articolo pubblicato – è scritto nella lettera letta da Bolognino – è sempre in chiave accusatoria anche quando esame e contro-esame hanno dato un quadro diverso”, e anche le scolaresche le associazioni che partecipano al processo lo fanno “solo per ascoltare la parte accusatoria e vanno via quando c’è il contro-esame”.

Alla “inquietante richiesta” – come viene definita da Ronchi – i giudici diedero ordine di rigetto, proprio nel giorno in cui davanti al Tribunale era arrivata la Mehari di Giancarlo Siani, in una delle tante tappe del “Viaggio legale”. Il giudice Caruso affermò che “la pubblicità dell’udienza ‘a pena di nullità’ è anzitutto garanzia fondamentale degli imputati”, ricordando poi come la libertà di informazione presente nell’articolo 21 della Costituzione sia “pietra angolare del sistema democratico”.

L’attività delittuosa degli imputati di Aemilia non si è mai fermata

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