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Due film, una sola storia

di Gianni Bianco il . L'analisi

E’ un caso. O forse no. Che “Anime nere” e “La nostra terra siano usciti insieme, a settembre, nelle sale cinematografiche è solo una coincidenza. Eppure, dopo aver visto entrambe le pellicole, ci si convince che quel che la sorte ha senza criterio deciso, si riveli un ottimo espediente per dare un quadro quanto più completo possibile di quel che accade nelle terre di mafia.

Difficile infatti avere un’idea compiuta del Sud devastato dalla criminalità organizzata, senza guardare entrambi i film che quel pezzo d’Italia lo descrivono con modi, registri e da prospettive anche molto diverse. I critici hanno elogia il dramma di Francesco Munzi – mettendolo appena un gradino sotto al capolavoro – e promosso con una sufficienza stiracchiata la commedia di Manfredonia, giudicata da alcuni troppo naif. Ma al di là del valore artistico dei singoli film, visto uno, si sente il bisogno di vedere anche l’altro, perché sembrano quasi completarsi, dove finisce il primo sembra cominciare il secondo. La denuncia senza sconti di Munzi su quel che le mafie sono oggi, non può non accompagnarsi alla consapevolezza di quello che in tanti continuano a fare con grande fatica tutti i giorni nelle terre delle quattro mafie, come racconta invece Manfredonia.  Insieme costituiscono una possibile terra di mezzo tra il pessimismo rassegnato e l’ottimismo consolatorio, poli tra i quali a volte ha dato la sensazione  di oscillare come un pendolo anche l’associazionismo antimafia.

E’ “Anime nere” a prendersi il compito di raccontare con grande efficacia la Calabria profonda, un mondo a parte nel quale il verbo sperare non ha diritto di cittadinanza. Da Amsterdam, passando per Milano e finendo ad Africo la violenza entra sotto pelle, arma le faide familiari. La scuola è in stato di abbandono, diventa la tomba di un ragazzo che spara mentre sarebbe dovuto stare ancora dietro i banchi. Alle forze dell’ordine c’è chi sputa letteralmente in faccia, le donne assicurano la trasmissione dei comandamenti della ndrangheta, gli uomini regolano i conti con il piombo. Non ci sono vie d’uscita, le anime nere sono. E nere restano. Ora e per sempre. Tutto tragicamente vero e il film ha la sua forza proprio nella scelta di non cedere alla possibile tentazione di inserire elementi di ottimismo fuori luogo in un contesto tanto verosimilmente cupo e muto.

Non che la cronaca però non racconti, anche di recente, storie d’altro segno. Anche in quel pezzo di Calabria continua ad esserci gente che non si piega, imprenditori che fanno abbattere la villa di un boss, ex sindaci che denunciano i soprusi delle cosche sulle amministrazioni locali. Ed è proprio di quest’altra faccia della luna che si occupa il film di Manfredonia, il quale pur non disdegnando di tratteggiare figure in chiaroscuro e non univocamente “positive”, punta forte sulla possibilità che il corso della storia possa cambiare. “Si può fare” si chiamava l’altro lavoro del regista sul riscatto di un gruppo di ex pazienti di un manicomio. E questo è il messaggio anche di questo nuovo film che questa volta racconta di un attivista antimafia “da scrivania” che scopre sul campo il vero senso del suo impegno, dando vita ad una cooperativa che comincia a coltivare prodotti biologici in un terreno confiscato alla mafia.

I critici cinematografici hanno esaltato il film di Munzi (anche perché popolato da figure di cattivi altamente credibili) mentre hanno mandato dietro la lavagna quello di Manfredonia (anche per personaggi ritenuti troppo prossimi alla caricatura, portatori di un buonismo, secondo alcuni, fuori dalla realtà). Schema che ripropone l’atavica difficoltà di raccontare il Bene, e la grande attrattiva che da sempre suscita il Male. Forzando un po’ il ragionamento, anche una possibile riproposizione dell’antico dissidio tra chi è tentato di pensare che “le mafie hanno vinto” e magari pure che ”l’antimafia sia inutile”,  e chi invece tutti i giorni lotta per dimostrare che “cambiare si può, soprattutto insieme”, magari partendo dalla restituzione alla comunità di un bene confiscato ai boss.

Le “anime nere”, in alcuni territori, continueranno ancora per un po’ a dettare legge. Poi un giorno, come diceva Falcone, “da fenomeno umano” saranno destinate a sparire. Ma è anche vero che “la nostra terra” è capace di generare frutti buoni, soprattutto se si piantano sempre nuovi semi di legalità. Vedere solo uno dei due aspetti, vuol dire rischiare di avere un’idea solo parziale di un Sud, dove certo ci sono le mafie. Ma non solo loro. Anche e soprattutto tanta gente che continua a dire no.

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