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Dobbiamo davvero arrenderci?

di Paola Bottero il . L'analisi

Oggi i funerali della sedicenne uccisa, A.D. 2013, da un diciassettenne che ancora dice “la amo”. A Corigliano Calabro, Italia. Tra indignazioni, accuse di calabresità come male ancestrale, luoghi comuni, pregiudizi, ricerca di capri espiatori, la notizia del terribile assassinio si mescola ad altre. In un calderone in cui è facile parlare: più difficile è decidere di fare davvero qualcosa.

 

Il giorno dopo ha un sapore sospeso. Amaro. Impotente. Di resa.

Il giorno dopo. Quello in cui i resti bruciati dell’ennesima vittima di una incontrollata furia omicida saranno accompagnati da un corteo silenzioso in una comunità con due colori: il rosso dell’amore dei bracciali che gli amici di Fabiana ed i ragazzi di Corigliano hanno alzato al cielo e il nero dei manifesti del lutto cittadino. Il giorno dopo tutto quello che si è detto, scritto, letto e commentato ha un sapore vuoto. Come il vuoto lasciato da venti coltellate, dalla benzina presa al distributore vicino per lavare con il fuoco, sulla carne viva, l’onta del rifiuto. Come il vuoto lasciato dalle parole che sono rimbalzate sui social net. Sempre due fazioni opposte: da una parte i media nazionali, che hanno preso spunto dalla calabresità di un minorenne che è solo, semplicemente, un assassino (benissimo lo ha scritto stamattina il centro di Woman’s study Milly Villa), per spiegare come “giù” questi delitti sono da mettere in conto, vista l’arretratezza in cui versa la Calabria (come se la Garlasco di Chiara Poggi, per fare un esempio tra mille, fosse in provincia di Cosenza). Dall’altra chi non ci sta: come Anna Rita Leonardi, la cui risposta al pezzo di Francesca Chaouqui ha totalizzato, in meno di ventiquattrore, oltre dodicimila “mi piace” e centosessanta commenti, che continuano a crescere. O come Mita Borgogno, “femmina di Calabria” e “discendente del brigante Palma”, che ha saputo coniugare un sorriso nella giornata dei j’accuse. O Tiziana Selvaggi, che ha raccontato il suo essere femmina in una famiglia di cinque sorelle e un fratello, maschio in assoluta minoranza. O Angela Potente, che ha spiegato perché non è scappata dalla sua/nostra Calabria. O, ancora, quattro studendesse di Corigliano, che hanno cercato di smantellare i luoghi comuni.

Ma il giorno dopo è uguale agli altri. Semplicemente, una ragazza di Corigliano Calabro è stata fermata a sedici anni. Per sempre. Da un Davide come un altro. Ma stavolta con la tanica, al posto della fionda. È vero che di Calabria si può morire. È vero che di Calabria si muore. Penso a Mary Sorrentino Monteleone, che proprio ieri “festeggiava” il suo settimo compleanno senza Federica, anche lei sedicenne, anche lei fermata per sempre, in una sala operatoria. Penso alle madri, ai padri, alle sorelle e ai fratelli di troppe vittime innocenti della ’ndrangheta, che ancora oggi cercano nella memoria dei loro affetti una ragione per andare avanti. Penso anche a mia madre, che proprio ieri sera, vittima della disinformazione mediatica cui cercano di sottoporci, mi ha fatto, sull’assassino di Fabiana, le stesse domande che si sono fatte in tanti, cercando di spiegare con la calabresità ciò che non si riesce a spiegare altrimenti: esiste ancora chi uccide. E non lo fa per ragioni geografiche.

Non sono nata calabrese. Sono nata e cresciuta piemontese, con quella frase sempre presente nella mia infanzia e nella mia adolescenza: «perché lui è un maschio». Me lo sentivo ripetere ogni volta in cui cercavo di capire perché mio fratello, due anni più piccolo di me, potesse uscire più di me, potesse rientrare più tardi di me, ottenesse cose che io neppure potevo chiedere. Mi sono liberata molto tardi di questo machismo latente che respiravo intorno.

Mi sono liberata poco prima di diventare calabrese a tutti gli effetti. È successo quando ho capito fino in fondo quanto fossero idioti e privi di fondamento stereotipi e pregiudizi nati per dividere, per creare due fazioni opposte.
È successo quando ho iniziato a gettare fuori la rabbia e l’impotenza che mi si attorcigliavano dentro, chiudendomi in una morsa che toglieva il respiro. Quando ho deciso che avrei fatto il possibile e l’impossibile per restituire la memoria a nomi e cognomi derubricati come fatti di cronaca. Terribile, ma pur sempre e solo cronaca.

Argomenti che tirano, oggi. Tutti scrivono di Calabria, tutti cercano di raccontarla a modo proprio, anche quando l’hanno vista solo da un comodo lettino nel lido più in voga delle più note località turistiche. Tutti a fare il punto. Quasi nessuno che provi a dire la verità: è stata uccisa un’altra ragazza. Da un assassino. Punto. Ieri, accanto alla giostra malaussèniana dei capri espiatori, tra aule rosse e vuote, indignazioni presidenziali per la mancanza di parlamentari, dichiarazioni più o meno politicamente corrette sui femminicidi, accuse e controaccuse per stabilire chi sia titolato/a a parlare davvero, particolari alla Quentin Tarantino sugli ultimi attimi di vita dell’ultima vittima, certezze che tutti sapevano, ma nessuno l’ha difesa, si è consumato, in silenzio, un altro delitto. Meno terribile, ma ugualmente grave.

Poco più a sud di Corigliano, in una cittadina bagnata dallo stesso mare. I cittadini di Isola di Capo Rizzuto “si sono liberati” di Carolina Girasole, sindaco antimafia per eccellenza, portato ad esempio e invidiato da molti Comuni italiani, lasciata sola a lottare per i suoi valori, per la sua onestà, per le innumerevoli cose fatte per il territorio. Lo aveva messo in conto, Carolina, ma ha voluto provarci ugualmente, per dimostrare a se stessa e a chi la pensa come lei che si può decidere di non arrendersi. Milleduecentocinquanta cittadini hanno continuato a credere in lei. Ha vinto il candidato di centro destra, al primo turno, con quasi quattro volte tanto di preferenze.

«Perchè il mio più grande desiderio – raccontando questa terra da tanti anni – è di avere torto. Un torto marcio. Il mio più grande sogno è scoprire un giorno che i miei figli e i figli di tutti i calabresi possano sputarmi in un occhio e dirmi: non avevi capito niente. Imbecille! Hai visto?». Così scriveva, un anno fa, Roberto Galullo, dicendo che la Calabria era persa. Irrecuperabile. Ne era nato un bel confronto. Gli avevo promesso che non gli avrei sputato, ma certo gli avrei dimostrato quanto si sbagliasse.

Oggi, il giorno dopo, non ho più voglia di leggere. E neppure di scrivere.

Perché ieri notte, per la prima volta, mi è venuto il dubbio che davvero avessi ragione tu, Roberto. E non so darmi pace. È quest’esercizio sul nulla, che mi svuota dentro. È questa corsa a trovare ovunque colpevoli diversi da noi, questo mettersi in cattedra e sentenziare, questo urlare per avere ragione. Da una parte e dall’altra. Oggi, il giorno dopo, rimane una sola certezza: l’ennesima vittima di questa società – globale, senza confini regionali o nazionali – che anche noi abbiamo contribuito a creare (è stata la mamma della ragazza, nel chiedere giustizia, a ristabilire il senso di umanità che è mancato a tutta questa storia: «Anche lui è una povera vittima»ha detto dell’assassino di sua figlia) sta per andarsene, con il suo feretro, laddove tutti andremo, prima o poi.

Fabiana non c’è più, sta scendendo anche nella gerarchia delle notizie dei siti dei maggiori quotidiani nazionali (sotto il ventesimo posto su Corriere, al quindicesimo su Stampa, ancora al decimo su Repubblica).

Fabiana è morta. Fabiana sta per essere sepolta.

 

Paola Bottero – Scirocconews

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