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Benfatto 2018: una comunità in cammino

Giacomo Carpinteri il . Piemonte

benfattoivreaAnche questa tappa di Benfatto è finita e penso che sia giusto cercare di tirare le somme di questa tappa e, in generale, del percorso di quest’anno. La figura che abbiamo analizzato è quella di Adriano Olivetti, sognatore, prima che imprenditore di successo, e uomo “etico”. Ho già utilizzato 2 parole chiavi che sono emerse più volte negli interventi che abbiamo ascoltato e credo che meritino di essere lette singolarmente.

  1. Sogno: Davide Mattiello, presidente della fondazione “Benvenuti in Italia” e Don Luigi Ciotti hanno più volte fatto riferimento a questo termine. Il sogno è ciò che ci permette di impegnarci; è ciò che ci mette in movimento per cambiare le cose. Essere sognatori significa avere l’entusiasmo che ci fa rispondere alla domanda “quanto vale la tua vita? Sei disposto a darne una parte per gli altri?” Senza sogno non c’è entusiasmo; e senza entusiasmo, si cede alla prima difficoltà.
  2. Etica: termine molto generale ma fondamentale. Don Luigi porta l’esempio degli ordini professionali che coinvolgono Libera per la redazione dei codici etici. Si parla di “etica nella professione” ma ciò non va bene. L’etica dovrebbe accompagnarci in ogni momento della nostra vita e serve a renderci scomodo il cercare di essere coerente. La coerenza comporta dei sacrifici, è vero, ma alla fine si vive bene perché si sa di stare facendo la cosa giusta.

Ivrea è stata una tappa fondamentale per vedere come a volte ci sia il rischio che i sognatori, una volta morti, siano dimenticati o, forse peggio ancora, resi dei santini. L’esempio della Olivetti è paradigmatico. Dopo la morte di Adriano, l’impresa ha continuato a operare ma, per motivi di liquidità, è passata pian piano sotto il controllo degli imprenditori che avevano una mentalità totalmente contrapposta alla sua e che hanno portato l’impresa a un lento ma inesorabile degrado. Olivetti, inoltre, è stato oggetto di una vera e propria “damnatio memoriae”: ci si doveva dimenticare di lui e di cosa avesse fatto. Questo avvenimento, che potrebbe sembrarci un motivo per rinunciare a impegnarci, viene in realtà ridimensionato dal ritorno nella cultura, più o meno generale, del pensiero; addirittura l’UNESCO ha dato un riconoscimento a un grande uomo che adesso viene “scoperto” da più soggetti; compresi noi. Questo dimostra che le buone pratiche trovano il giusto riconoscimento e che niente può giustificare il nostro restare fermi, nonostante le difficoltà.

Don Luigi, nel suo discorso, ha anche ricordato come Libera si stia dirigendo verso i 25 anni, mettendoci in guardia dal rischio che associazioni grandi come la nostra corrono: diventare dei contenitori vuoti. Credo che una tappa dedicata ai giovani serva proprio a questo: a dare la carica necessaria per non perdere quell’entusiasmo che ha mosso tante persone quasi 25 anni fa; così da prendere il testimone per continuare a lottare per arrivare al nostro obbiettivo: la giustizia sociale. Benfatto è una bellissima esperienza che però ci dà una grossa responsabilità: applicare quell’entusiasmo nei territori. Compito certamente non facile ma sicuramente un ottimo motivo per mettersi in gioco. Credo che possa aiutare tutti coloro che dopo aver sbattuto la testa contro il muro delle difficoltà pensino di lasciar perdere una frase citata da Ciotti nel discorso conclusivo del Benfatto. È una frase di Don Tonino Bello, che va letta senza concentrarsi sul modello religioso cui si crede: “Il signore si serve di chi balbetta”.

In conclusione di questo piccolo racconto di ciò che è stata questa tappa finale di Benfatto non si può non parlare del termine “comunità”, suo motto. Di comunità se ne parla per trattare di Olivetti, per parlare di economia civile, per parlare di LABSUS e di rigenerazione urbana, per parlare di Libera… È indubbiamente un termine che ritorna ed è, come ci ha detto Davide Mattiello, l’unico elemento per non “affogare” e per mantenere in vita la speranza di riuscire e per non perdere l’entusiasmo.

Anche noi partecipanti di Benfatto abbiamo cercato di definire il termine “comunità” e Alessandra Moreschini, con grande abilità, è riuscita a sintetizzarlo così: “Comunità è un’unione di fiducia, avente un pluralismo interno che genera il confronto sulla base di una promessa: dire “mi interessa”, “I care”, e forma legami che danno senso di appartenenza, creano identità nella differenza, ascoltando l’altro, avendo cura dell’altro. È partecipazione quotidiana, è apertura, è un sorriso, un conforto. È sentirsi a casa.

È un cerchio di umanità, il noi che genera il bene, un noi in cammino per costruire qualcosa di migliore che dà valore alle differenze per restituire uguaglianza e diritti.

È una scelta rivoluzionaria, come solo sa essere la corresponsabilità.

È un contagio di tensione alla bellezza”.

Nel se/ogno di Olivetti

A riveder le stelle

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