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Morire di notte, morire in acciaieria

Di Santo Della Volpe il . Puglia

In acciaieria il tempo sembra essersi fermato: all’Ilva di Novi Ligure, sicuramente. Perché in acciaieria si muore schiacciati dal peso  dei materiali trasportati  sin dal secolo scorso,quando si usavano ancora i carrelli spinti a  mano.  I grossi rotoli di laminati pesanti tonnellate,agganciati ai ponti e trasportati con i muletti, hanno segnato l’evoluzione industriale di due secoli con morti schiacciati  e orrendamente martoriati. La fonderia uccide con il fuoco, poi l’acciaieria con  il peso,si diceva una volta. E  si muore soprattutto di notte, perché le  fabbriche di questo tipo sono a ciclo continuo e quindi non si fermano mai, obbligando gli operai a turni stancanti, ad una attenzione maggiore perché,naturalmente, la notte è fatta per dormire, non per lavorare. E la soglia di attenzione cala con la stanchezza e con le palpebre.  Nella sera dell’8 giugno 2012 (non nel secolo scorso), un altro operaio è morto in questo modo, in una delle più antiche acciaierie d’Italia, L’ILVA di Novi Ligure, in quell’angolo della provincia di Alessandria dove la rivoluzione industriale è cominciata con le fonderie  nel 1800 e resiste oggi con l’acciaio ad una deindustrializzazione galoppante.
Si chiamava Pasquale La Rocca, il 491esimo morto sul lavoro di questi primi 5 mesi del 2012. E non era un operaio qualunque: capo reparto esperto anche se aveva solo 31 anni. Giovane quindi, ed attento a quello che faceva. Come è possibile allora che il muletto in retromarcia l’abbia schiacciato, ribaltandosi sotto il peso del materiale che trasportava? Perché è morto un operaio che guidava una macchina molto usata in fabbrica (il muletto, appunto) e che quindi aveva sufficiente esperienza per saper manovrare il veicolo? L’inchiesta della magistratura, che ha sequestrato il muletto e disposto l’autopsia sul povero La Rocca, darà una risposta certa: ma un primo fatto è incontrovertibile. Il muletto non aveva la cabina di protezione,era scoperto, non aveva porte laterali e quindi “pilastrini” di metallo che in caso di ribaltamento impediscono al guidatore di restare intrappolato sotto il mezzo. Così scrive  l’agenzia di stampa da Novi Ligure. Ed a questo, probabilmente, si riferiva  Fausto Dacio, della Fiom-Cgil di Novi Ligure quando ha detto che l’incidente è stato “causato per non esserci stato il pieno rispetto delle norme di sicurezza. Non ci stancheremo mai di dire” –  ha proseguito –   “che prima delle necessità produttive deve esserci la salvaguardia dell’integrità fisica delle lavoratrici e dei lavoratori, auspicando che la perdita di un’altra vita umana non sia semplicemente considerato un effetto collaterale delle necessità dei mercati”
Ma la vicenda di Novi Ligure non si è fermata qui: perché  nonostante la morte di Pasquale La Rocca, l’attività nello stabilimento dell’Ilva non è stata sospesa, almeno subito.  Per questo i sindacati hanno proclamato uno sciopero immediato dei turni di notte. E Cgil-Cisl-Uil hanno replicato lo sciopero nella giornata del giorno 8 giugno, a fine turno in tutta la provincia di Alessandria. Perché è vero che in acciaieria il ciclo è continuo, ma una vita persa per il lavoro è un motivo grave per sospendere il lavoro. L’azienda avrebbe fatto bene a prendere  lei l’iniziativa, senza aspettare, come ha scritto in un comunicato, che il lavoro si fermasse in tutto lo stabilimento “non appena la notizia si è diffusa”. Essendo l’Ilva estesa su 1 milione e 350mila metri quadrati , è una implicita ammissione di una sospensione in ritardo, voluta in realtà non dalla direzione aziendale ma  dalle RSU  “per esprimere il comprensibile dolore e sbigottimento dei colleghi”, per usare il comunicato aziendale che poi aggiunge a sua discolpa, che la sospensione del lavoro non era  “per protesta contro una inesistente volontà aziendale di non fermare gli impianti produttivi”. Sarà anche così, ma perché allora non fermare subito gli impianti senza aspettare che i sindacati di base bloccassero il lavoro, indignati?  Perché senza quella autonoma iniziativa aziendale, il lavoro che continuava è sembrato ai più una insopportabile mancanza di sensibilità e cultura del lavoro, lasciando spazio alla logica del “padrone delle ferriere” che vede la produzione sopra il valore della vita, i soldi prima di tutto, come si diceva alla fine dell’800.
Appresa la precisazione resta poi da capire perché quel muletto non avesse  protezioni tali da impedire al guidatore di restare schiacciato dal ribaltamento del veicolo; al punto che per prestare soccorso a Pasquale La Rocca, i suoi compagni di lavoro hanno dovuto agganciare il  muletto ad un carro-ponte dell’impianto produttivo e sollevarlo con delle robuste catene. Segno che il capo reparto è rimasto completamente schiacciato dal veicolo, tant’è vero che i sanitari del 118 non sono riusciti a rianimare la vittima.  Qualcuno dovrà dare delle spiegazioni, alla magistratura, alla famiglia di La Rocca, ai sindacati. Questa volta non si potrà dire che non ci sono responsabilità dirette, che è stata una fatalità: morire in fabbrica, oggi con lo stile di lavoro di un secolo fa, nel disinteresse  aziendale che non ha preso neanche l’iniziativa di bloccare l’attività di propria spontanea volontà, non può passare come semplice omicidio colposo, incidente dovuto al caso o con un mazzo di fiori al funerale.
Le responsabilità devono emergere: e soprattutto che questa ennesima morte in fabbrica serva a far cambiare  il modo di lavorare  per far aumentare la prevenzione, spendere per salvare le vite umane quando lavorano (investimenti tra l’altro che portano a catena altro lavoro e a partecipare alla ripresa della famosa crescita economica); per fare sicurezza ed avere più attenzione a chi lavora, anche con fatica.
E’ un auspicio, contenuto anche nel comunicato unitario dei sindacati: “nonostante ci venga spiegato che gli infortuni mortali sono in calo, noi dobbiamo constatare una continuità preoccupante di questi incidenti che richiama la necessità di vigilare da parte delle istituzioni preposte ai controlli,soprattutto in questi anni di crisi industriale”. Parole chiare: speriamo non siano lasciate nel vento, ma ben raccolte.
Perché i morti  sul lavoro sono già molti, troppi, in Italia , più di 490 sino alla fine del mese di maggio, secondo l’Osservatorio di Bologna sulle vittime in fabbrica, nei cantieri, sulle strade, in campagna, nei pozzi e nei luoghi chiusi, nei crolli delle aziende per terremoti ed esplosioni. Tutti accomunati dall’orrore per lo schiacciamento, i corpi dilaniati, bruciati, sotterrati. E  queste sono le cifre dei morti “ufficiali”, perché il lavoro nero ne uccide tanti, che non restano nelle statistiche. Per i più difficili da nascondere, la regolarizzazione avviene proprio nel giorno della morte, dell’infortunio. Ma per molte vittime, nelle campagne, il rischio è l’abbandono sul ciglio della strada, anonimi,quasi sempre immigrati vittime dell’illegalità, dei “caporali”, del lavoro massacrante a 20 Euro al giorno, quando va bene, per raccogliere pomodori  o  per salire e scendere  dalle impalcature.
Vittime di mafia anche queste, vittime della illegalità che non vengono comprese nei numeri e nei resoconti sulla malavita organizzata. Sfuggono ai più,spesso però non  al destino dell’emarginazione, sia da vivi che da morti.

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