Fare informazione e farla bene
“Fare informazione. E farla bene”. È il monito lanciato da Santo Della Volpe nel corso del seminario promosso il 17 marzo da Libera informazione. A raccogliere l’appello tanti giovani che con passione hanno partecipato a una vibrante discussione sul tema del giornalismo d’inchiesta. Condotta da alcune grandi firme italiane: Giovanni Tizian, Toni Mira e Attilio Bolzoni. “La notizia prima di tutto? È la domanda volutamente provocatoria che abbiamo scelto per aprire quest’incontro”, spiega il direttore di Libera Informazione. “Vogliamo che ci sia un confronto sincero. L’obiettivo è trovare un punto d’unione tra il mondo dell’informazione e le realtà sociali. Spesso con necessità differenti”.
Da un lato vi è l’urgenza giornalistica di raccontare. Dall’altro il bisogno di riservatezza proprio di chi lavora quotidianamente in contesti difficili. “Ma di mafia bisogna parlarne”, ripete insistentemente Della Volpe. E il suo mantra si trasforma in una dura critica ai media italiani: “Di recente abbiamo registrato un abbassamento dell’attenzione sulle notizie di mafia nei giornali, telegiornali e radio. La ‘Vidierre Media Analysis’ ha messo in evidenza che nel 2011 la parola mafia è stata menzionata solo 523 volte. A fronte delle 925 citazioni nel 2009. Sono dati che colpiscono. Perché quando non si affrontano certi temi, l’attenzione della gente cala. E l’economia mafiosa cresce”.
Giro di affari annuo stimato in 150 miliardi di euro. Centottanta mila i posti di lavoro persi nel mezzogiorno. E il 15 per cento del Pil sottratto all’economia legale di regioni come Basilicata e Puglia. Sono i costi della presenza delle cosche emersi in una recente relazione della Commissione parlamentare antimafia. Nel documento si legge: “La pressione delle organizzazioni mafiose frena lo sviluppo di vaste aree del paese, comprime le prospettive di crescita dell’economia legale, alimentando un’economia parallela, illegale e determinando assuefazione alla stessa illegalità”. Situazione agghiacciante. Di cui però si parla poco e male.
“Se le mafie non sparano, non fanno notizia” dice Giovanni Tizian, giovane giornalista sotto scorta da dicembre scorso per aver raccontato storie scomode. “Si è parlato molto delle feste a casa di Berlusconi. Ma non del fatto che in quella casa entrasse Lele Mora, in contatto telefonico con un boss milanese. È importante dirlo. Così com’è fondamentale dire che un’economia quotidiana, è stata conquistata dalla mafia: il gioco d’azzardo legale. Ci sono imprenditori con un curriculum criminale di primo livello che investono nel settore delle macchinette certificate dai monopoli dello Stato. O nelle imprese”. E questo lui lo sa bene. Per anni ha evidenziato che la ‘ndrangheta e la camorra si sono infiltrate in tutto il Nord Italia diventando persistenti. Molte le inchieste per La Gazzetta di Modena. Pagate venti centesimi a riga. Poi un libro: Gotica. Il tutto seguendo un grande maestro di giornalismo e i suoi insegnamenti, Roberto Morrione. “Il racconto del potere mafioso – rivela Tizian – non si basa sullo scoop sporadico. Ma alla base dell’informazione vi sono tanti piccoli episodi. Che vanno messi insieme per creare un unico racconto. È questo ciò che spaventa i mafiosi. Perché mette in luce i loro intrecci di potere. E blocca i loro affari”.
“L’informazione è un’arma per combattere le mafie”, chiosa con fare deciso. Ed è più che mai importante fare il giornalista. E farlo bene. Come? A dare la ricetta è Attilio Bolzoni: “I giornalisti di oggi vedono poco, parlano poco e sentono ancora meno. Per essere bravi è sufficiente essere normali. Perché la normalità ‘spacca’. Anche nel nostro mestiere”.
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