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Pasta connection

Di Enrico Bellavia (da Repubblica.it) il . Campania, Lazio

“A Roma e Milano un locale su 5 è della mafia. Se ci fosse una contabilità unica, si scoprirebbe che i clan possiedono una holding dal 16 mila addetti. Pagamento in contanti, pochi tavoli occupati: è la formula che permette di evitare i controlli”. Così il giornalista di Repubblica, Enrico Bellavia, apre la sua inchiesta sulle infiltrazioni mafiose nelle catene di ristorazione, con un occhio particolare alle grandi città come Roma e Milano dove – scrive il giornalista – “si calcola che un locale su cinque sia nelle mani dei boss”. Un lungo viaggio nel cuore finanziario e politico nell’economia del Belpaese quello pubblicato sul quotidiano “Repubblica” il 23 luglio scorso,  che racconta di un sistema in grado di gestire il percorso dei cibi che va dalla produzione, al trasporto, dallo smistamento alla vendita. Un sistema parallelo fittizio o sovrastimato, tenuto in piedi anche grazie ad una vasta rete di complicità e silenzi. Libera informazione ripropone questa inchiesta documentata  che dimostra ancora una volta la capacità di infiltrazione e radicamento  delle organizzazioni criminali nel tessuto economico e sociale del Paese.

È la più grande catena di ristoranti in Italia, conta almeno 5 mila
locali, 16 mila addetti, e fattura più di un miliardo di euro l’anno.
Non ha un marchio unico e i proprietari sono diversi. È la catena dei
ristoranti dei boss. Spuntano lontano dai territori tradizionali,
compaiono dietro marchi prestigiosi, hanno bilanci sempre in attivo.
Gigantesche lavanderie alla luce del sole dei capitali del
narcotraffico. Tutti insieme costituiscono una holding che ha dieci
volte i ricavi del gruppo Sebeto (Rossopomodoro e Anima e Cozze),
incassa 15 volte di più dei Fratelli La Bufala e un quinto di un
colosso internazionale come Autogrill, che però di insegne ne ha 5.300
in 42 Paesi. Ma perché proprio i ristoranti? In che modo costituiscono
un canale di riciclaggio? Quali sono i sistemi utilizzati?

LA PRESENZA DEI BOSS
Da
Roma a Milano, passando per la Toscana, l’Emilia, la Liguria, non c’è
indagine recente sulla presenza dei clan dalla quale non salti fuori il
nome di un ritrovo alla moda creato dal nulla o ristrutturato senza
badare a spese per portare a galla il denaro sporco delle cosche in un
vortice di cambi societari, di insegne che hanno stravolto uno dei
comparti più celebrati dell’economia del Belpaese, attanagliato da una
morsa criminale che – stima Enzo Ciconte, già presidente
dell’Osservatorio sulla legalità del Lazio – “assoggetta
complessivamente il 15 per cento dell’intero settore”.

Nelle città più grandi, Roma e Milano, si

calcola che un locale su cinque sia nell’orbita dei boss. I
Piromalli della Piana di Gioia Tauro a Roma e sul Garda, i Coco Trovato
da Catanzaro tra Lecco e la Madonnina, i Papalia di Platì sotto al
Duomo, gli Iovine, i Bidognetti e gli Schiavone da San Cipriano
d’Aversa e Casal di Principe a Campo de Fiori, a Ostia o a Fimicino
come a Modena. Gli Arena da Isola Capo Rizzato in Romagna, forti di una
radicata presenza nel settore turistico-alberghiero. I Pesce-Bellocco
di Rosarno e poi gli Alvaro di Sinopoli nel cuore della Dolce Vita
romana. I Morabito da Africo a dettar legge all’Ortomercato di Milano
dove Salvatore, il nipote di Giuseppe, ‘u tiradritto, entrava in
Ferrari esibendo un regolare pass da facchino. E lì si era fatto
autorizzare il “For the King”, un night che era il suo ufficio di
rappresentanza nel cuore della Wall Street – 3 miloni di euro al giorno
– della frutta e verdura italiana.
Clan che si fanno la guerra in
Calabria si ritrovano soci in affari a migliaia di chilometri. E negli
affari alimentari si mischiano obbedienze diverse. In un locale di
Brera, gestito da calabresi, era di casa il figlio di Tanino Fidanzati,
il siciliano re della droga milanese. I Caruana da Siculiana, in
provincia di Agrigento, con base a Ostia, si erano spinti a Chioggia,
per trattare un complesso turistico. Nel litorale laziale, il boss
Carmine Fasciani era in affari con i napoletani, gestendo il “Faber
Village” e un ristorante. È questa la nuova frontiera di una mafia che
non conosce confini. “La quinta mafia”, la definisce Libera.

Nella
capitale lavorava Candeloro Parrello, boss di Palmi, che nel
portafoglio delle sue attività sequestrate, per un totale di 130
milioni, aveva “La Veranda” a Fiano Romano e uno stabilimento balneare
a Punta Ala in provincia di Grosseto. Dalla pizzeria “Bio Solaire” di
via Valtellina a Milano, di cui era socio occulto, Vincenzo Falzetta
amministrava gli affari di Francesco Coco Trovato che all’Idroscalo
aveva impiantato il “Cafè Solaire”. I Molè che con i Piromalli
controllavano i container cinesi al porto di Gioia Tauro avevano invece
individuato nel complesso di “Villa Vecchia”, hotel storico con due
ristoranti a Monteporzio Catone un ottimo investimento per far fruttare
una fetta dei 50 milioni a disposizione. A curare l’affare era Cosimo
Virgiglio, titolare di una ditta di import-export. L’hotel era
diventato la base del clan e quando i vecchi proprietari avevano
provato a protestare, Virgiglio aveva provveduto a farli sloggiare
nottetempo. Nino Molè, erede di Rocco ucciso nel 2008, per dire alla
fidanzata che lì era ormai tutto della famiglia, spiegava: “Tu mangi la
pasta gratis”.

DOVE C’E’ PIZZA C’E’ MAFIA
“Dove
c’è pizza c’è mafia”, ha sostenuto un dei pochi pentiti calabresi
all’indomani della strage di Duisburg, che rivelò al mondo quanto la
Germania che mangiava italiano fosse infestata dal bubbone. Lo aveva
intuito negli anni Ottanta anche Giovanni Falcone indagando sulla Pizza
Connection. Il sistema però si è evoluto. Come mai i boss si
interessano sempre di più ai ristoranti? Una premessa è d’obbligo: tra
i tavoli gira normalmente molto contante. Una condizione essenziale per
non lasciare tracce. I pagamenti elettronici, al contrario, sono
facilmente riscontrabili, costituiscono uno degli strumenti per la
cosiddetta tracciabilità del denaro. Ecco perché tra le attività
commerciali i locali pubblici sono quelli più ambiti, complice quella
che Lino Stoppa, presidente della Fipe, la federazione dei pubblici
esercizi, chiama “liberalizzazione di fatto”.

Il flusso di
contante è la condizione essenziale sia per chi investe in attività ad
alto rendimento sia per chi, invece, è a caccia solo di un paravento.
Alla “Rampa”, il locale di Trinità dei Monti che la magistratura romana
voleva sequestrare perché ritenuto di proprietà dei Pelle-Vottari di
San Luca in Aspromonte, la prima cosa che notarono i finanzieri
incaricati delle indagini è che non si accettavano carte di credito e
lo scrissero nel loro rapporto. La Rampa, anche per via della
posizione, ha sempre avuto una folta clientela, ma ci sono ristoranti
acquistati per milioni, rimessi totalmente a nuovo eppure
drammaticamente deserti. Posti in cui non entra mai nessuno. Ma le luci
rimangono accese fino a tardi e il personale è sempre presente. A che
servono quei locali fantasma? Primo, per giustificare lavori edili e
acquisti di arredi ampiamente sovrastimati, pagamenti di merce mai
acquistata che nessuno ha mai veramente consegnato e di piatti che non
sono stati cucinati. Quei locali servono a far girare pezzi di carta.
Per far affiorare soldi che erano già nel cassetto. Chi li gestisce non
ne ha alcun bisogno: sono solo una copertura per introiti altrimenti
ingiustificabili. Il sistema funziona a prescindere dal numero
effettivo di clienti. E naturalmente è ampiamente praticato da chi
riempie i coperti per davvero ma può moltiplicarli.

In un caso o
nell’altro, il ristorante è il terminale di una filiera alimentare: dai
prodotti della terra alle carni, dalle mozzarelle al caffè. E il giro
di fatture parte da lontano. Dalla produzione, al trasporto, dallo
smistamento alla vendita. Un sistema economico parallelo fittizio o
sovrastimato. “Negli ortomercati e nella grande distribuzione c’è il
cuore dell’interesse delle mafie che si spinge fino ai ristoranti”,
dice l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione.

Il
fisco diventa un costo necessario per far tornare in circuito il denaro
sporco, ma presenta dei vantaggi. Costa meno di quel 30 per cento che
in media tengono le agenzie che a livello internazionale si occupano di
occultare il denaro delle mafie ed è ampiamente recuperabile con altri
artifizi contabili. E poi è a rischio zero: “Non esiste
l’autoriciclaggio”, sottolinea Maurizio De Lucia, pm della Direzione
nazionale antimafia.

LE FAMIGLIE IN CUCINA
Quasi
mai i boss compaiono direttamente nella gestione delle attività. Usano
i prestanome e difficilmente tengono un’insegna a lungo. Scelgono come
forma giuridica le società, comprano e vendono rapidamente. Sbaraccano
e ricominciano da un’altra parte. “Un turn over frenetico” che è più di
una spia di inquinamento, fa notare Lorenzo Frigerio di Libera
Lombardia. Ogni anno aprono 2.000 nuovi ristoranti e le società sono in
numero doppio rispetto a quelle che chiudono i battenti.

I boss
si fidano solo di mogli e figli. Ma qui confidano nella oggettiva
difficoltà delle indagini, nella farraginosità della procedura, nelle
lungaggini di un processo che parte largo con i sequestri e finisce
nell’imbuto strettissimo delle effettive confische. Ai parenti prossimi
è riservata la porzione meno fragile di quella costruzione. Salvata
quella il meccanismo si autorigenera e la prima attività commerciale
“pulita” può giustificare successive acquisizioni. Fino a nuove
indagini. “Ormai – dice Alberto Nobili, memoria storica della procura
di Milano – arrestiamo i nipoti dei capimafia degli anni Ottanta”.

Ma
come entra un clan nel mondo della ristorazione? L’acquisto è solo una
delle forme. Lontano dai territori del Sud dove l’usura è praticata ma
sotto traccia anche dove, come in Sicilia con Cosa nostra, è
espressamente vietata agli uomini d’onore, i boss usano il prestito
come forma di finanziamento di attività fino a quel momento
perfettamente legali. Il boss sostiene i conti del ristorante e punta a
prendersi tutto, magari lasciando il vecchio proprietario come
intestatario senza potere e senza soldi. Era la specialità del clan di
Biagio Crisafulli che aveva base a Quarto Oggiaro e alla Comasina a
Milano. È Accaduto ad Amelia, in provincia di Terni dove il clan
calabrese dei Marando aveva acquisito per un credito da 50 mila euro il
50 per cento del “Parco degli Ulivi”. Era accaduto al ristoratore Nino
Istrice a Palermo che si era fatto aiutare dal boss Salvatore Cocuzza.
Il rischio di esproprio per usura è in cima alle preoccupazioni dei
ristoratori romani e i dati sul turnover delle aziende confermano i
timori. A Roma interessa 26 mila commercianti, alle prese con 3 mila
istanze di fallimento ogni anno.

Per Vincenzo Conticello, il
titolare della “Antica focacceria San Francesco” di Palermo, che ha
denunciato gli estorsori in un drammatico confronto d’aula cominciò
tutto, non diversamente che per i ristoratori campani, con una
fornitura di mozzarelle. Il grossista era il rampollo del boss Masino
Spadaro. Del resto l’ultima indagine sul racket nel capoluogo siciliano
ha svelato come l’imposizione di un marchio di caffè fosse una moderna
testa d’ariete per entrare nelle aziende.

DALLA VERANDA AL CAFE’ DE PARIS
A
Napoli quasi non fa sensazione che Giuseppe Setola, il capo degli
stragisti casalesi si sia impadronito della “Taverna del Giullare” in
piazza dei Martiri. O che Carmine Cerrato, a capo degli scissionisti di
Scampia avesse a disposizione per i summit l’ex “Etoile” chiuso al
pubblico. E Palermo non si è certo sorpresa quando i Graviano volevano
comprarsi “La Cuba”, uno dei locali più in della città, né quando
Provenzano ha fatto capolino dietro la proprietà di un resort sulle
Madonie con cantina d’eccellenza. Roma invece ebbe un sussulto quando
l’anno scorso Ros e Scico e le Procure di Reggio Calabria e Roma
scoprirono che il “Cafè de Paris” di via Veneto, dopo un periodo di
declino, era finito nelle mani del clan alleato degli Alvaro-Palamara
di Sinipoli e Cosoleto: gli avevano piazzato un barbiere calabrese come
manager. Ma l’acquisto del Cafè de Paris non era che il coronamento di
un’architettura finanziaria, una scalata da 200 milioni di euro
costruita con cura a partire dal 2001.

Era cominciato tutto
quando Vincenzo Alvaro, figlio di Nicola che aveva ereditato il bastone
del comando a Cosoleto, e la moglie Grazia Palamara si era stabilito a
Roma per scontare il divieto di soggiorno in Calabria facendosi
assumere come aiuto cuoco da un cugino al “Bar California” di via
Bissolati, a una manciata di metri da via Veneto. In sette anni
Vincenzo Alvaro ha chiuso accordi che gli garantivano il controllo di
sei bar e tre ristoranti. È al California che fa la sua comparsa
Damiano Villari, un barbiere di Sant’Eufemia di Aspromonte che ha un
reddito da 15 mila euro e conclude per 2,2 milioni di euro l’acquisto
del Cafè de Paris, dopo aver comprato anche l’esclusivo “George’s” di
via Sicilia: un affare da 1 milione di euro. Oggi il George’s è chiuso.
Un cartello avverte di rivolgersi alla portineria vicina. Dove
ricordano ancora la folla di auto di lusso che intasavano la strada
all’ora dell’aperitivo. Il California è ancora aperto, lo gestisce un
amministratore giudiziario. Alla cassa c’è un giovane calabrese che non
vuol dire il nome, non conosce Grazia Palamara e Vincenzo Alvaro e dice
di non aver visto mai Damiano Villari. Racconta che il bar è di un
certo suo cugino calabrese, “persona che si alza alle 4 del mattino”.
Sostiene che il bar gli sarà restituito. “Sta finendo, sta finendo”,
ripete scrollando le spalle. La pensa così anche l’egiziano che serve
compito ai tavoli del Cafè de Paris: “Finirà presto, con i proprietari
si stava meglio. Loro sì che hanno i soldi”.

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