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Storia di un giudice ragazzino

Di Lorenzo Frigerio il . Recensioni

Prima di iniziare a leggere il bel libro scritto
da Francesco Cascini “Storia di un giudice”,
è assolutamente consigliabile andare a recuperare
il contenuto prezioso di un altro
libro: “Il giudice ragazzino” di Nando dalla
Chiesa che racconta la storia di Rosario Livatino,
ucciso dai killer della mafia ad Agrigento
il 21 settembre del 1990.
L’accostamento tra i due libri non è forzato,
perché la testimonianza di Cascini è proprio
quella di un giudice ragazzino – così ebbe
a definirli in una celebre esternazione l’allora
Presidente della Repubblica Francesco
Cossiga – finito qualche anno fa nella trincea
di Locri, in Calabria, dove l’amministrare
la giustizia è una fatica da Sisifo, tanto
vana sembra la speranza di poter cambiare
le cose in quel territorio che sembra dimenticato
da Dio e dagli uomini.
Già a partire dalla scelta della sede, si capisce
la considerazione nei confronti della
realtà calabrese: Locri, insieme a Gela, resta
sempre scoperta fino all’ultimo, quando
i giovani uditori, freschi di laurea e carichi disperanza, sono chiamati a scegliere la sede
nella quale esercitare il loro praticantato. 

E
che sia una sede disagiata e per questo evitata,
lo si comprende anche dal fatto che,
non appena i termini lo consentono, i giovani
magistrati applicati, chiedono il trasferimento.
Il quadro in cui si trova a muovere i primi
passi Cascini è sconfortante e il lettore segue
il magistrato nella lenta discesa all’interno
dell’inferno calabrese, dove la vita
umana non vale nulla, ma è solo un numero
nella contabilità contenuta nei mattinali di
questure e caserme.
Fin dal primo omicidio con cui si confronta,
il giudice misura la distanza abissale tra
quanto imparato sui libri e la realtà. E il primo
impatto con i superiori è disarmante nella
sua crudezza: “Le parole del procuratore
ci annunciavano che stavamo per scendere
in guerra. Con pochi uomini, poche risorse,
pochi mezzi, nessuna possibilità di vittoria. 
Ci descrivevano un nemico sotto casa,
gente che si incontra al bar, un lavoro moltodiverso da quello che si fa in altre procure
italiane.[…]Il procuratore diceva cose solenni,
le sue erano parole allarmanti, eppure
il tono che usava era ordinario, non aveva
nessuna concitazione. Sembrava che quella
guerra non lo coinvolgesse più di tanto.
Forse si era abituato, forse non la sentiva
una guerra sua, forse sapeva di averla già
persa”.
Una guerra davvero persa quello dello Stato?
Una guerra forse nemmeno combattuta,
verrebbe da dire. Di sicuro Locri è la fotografia
di quello che accade spesso e volentieri
nelle regioni a tradizionale presenza
mafiosa, dove è lo Stato ad essere infiltrato
e non la mafia… 
Basti pensare all’immagine plastica ed
esemplificativa contenuta nelle pagine
scritte da Cascini: i carabinieri costretti a
rinchiudersi nella caserma di San Luca e a
blindare ogni accesso in occasione dell’ultimo
dell’anno, perché i giovani di quel paese
– da tutti gli esperti considerato l’epicentro
della ‘ndrangheta, oggi potenza mondialedel crimine globalizzato – sono soliti sfoggiare
le loro capacità balistiche, prendendo
di mira proprio la caserma, con ogni tipo di
arma da fuoco.
Quello che più pesa alla lunga sono una
serie di cause che interagiscono profondamente
tra di loro: l’assoluta coscienza dei
limiti dell’amministrare la giustizia in quel
territorio; l’enorme mole di arretrati, segno
dell’impossibilità di arrivare ad una verità
processuale per molti; la presenza costante
e minacciosa di una criminalità organizzata
che non esita a distruggere persone e territori
pur di affermare la propria supremazia;
la rassegnazione di abitanti e istituzioni nel
convivere con una ingiustizia che si cronicizza
a tal punto da togliere ogni speranza
di futuro. 
Il giudice deve fare innanzitutto i conti con
sé stesso e questa sembra la partita più
difficile, stante la tensione continua al quale
è sottoposto tra idealità e realtà nella quotidiana
amministrazione della giustizia in
quel di Locri. La prima e più forte reazione
è quella di buttarsi a capofitto nel proprio
lavoro, superando i propri limiti – “dovevo
diventare grande per forza” confessa ad un
certo punto Cascini – finendo con il togliere
ogni spazio alla sua vita privata. È una scelta
obbligata da un lato, ma estremamente
consapevole dall’altro che trasforma un gesto
di resistenza eroico in un atto di fede nel
sistema, già di per sé rivoluzionario. 
Preso atto dell’impossibilità di risolvere ogni
problema, di chiudere ogni fascicolo, Cascini
decide di utilizzare l’esame delle carte
processuali, quelle relative alle vicende di
‘ndrangheta soprattutto, per entrare meglio
nell’humus culturale, sociale e civile nel
quale si trova ad agire. E dallo studio delle
carte processuali viene anche lo stimolo a
costruire una autonoma capacità di intervento,
per vivere e lavorare meglio e con
più profitto, spezzando la spirale perversa
della rassegnazione e della sfiducia: “Non
era possibile capire tutto e subito. Forse non
era possibile capire e basta. Io cercavo delle
risposte sulla Calabria, sulla ‘ndrangheta,
sulle faide, sulle decine di morti ammazzati,
sull’indifferenza. E invece dovevo cominciare
a costruire una mia identità, una mia
capacità di agire, di individuare i problemi e
tentare di risolverli, poco alla volta”. 
La nuova consapevolezza diventa anche
un mezzo di difesa nel caso di insuccessi
e difficoltà, che pure costellano l’esperienza
professionale del giudice, chiamato ad
affrontare casi difficilissimi, quali la faida
tra i Cataldo e i Cordì o i casi di infiltrazione
nella pubblica amministrazione, nella sanità,
nell’agricoltura, tutti condizionati pesantemente
dal connubio perverso tra mafia e
massoneria, particolarmente florida in Calabria.
Quando alla fine, lascerà Locri, Cascini
lo farà con la consapevolezza di avere dato
il meglio di sé e di non avere rimpianti per
una stagione che andava vissuta così, quasi
in apnea.
In tutte le vicende narrate il magistrato non
prende mai il sopravvento sull’uomo e questa
è una chiave di lettura importante oggi
nel valutare il valore più autentico di una
magistratura autonoma e indipendente,
come previsto dalla Carta Costituzionale.

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