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Gela, bancarelle e lavoratori abusivi

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

“Credimi, a Gela per noi commercianti c’è sempre la possibilità di guadagnare qualcosa in più rispetto ad altre città; anche in un periodo di crisi il mercato del martedì è sempre molto frequentato, e per noi avere una licenza è indispensabile”. Questa confessione, ottenuta nel corso di un breve scambio di vedute condotto insieme ad uno dei tanti ambulanti “forestieri” operanti all’interno del vasto mercato settimanale, non nasconde in alcun modo l’affare che si cela all’ombra delle migliaia di bancarelle settimanalmente allestite in contrada Giardinelli.

Siamo a Gela. Quello che da decenni si svolge ogni martedì nella cittadina nissena non costituisce solo un appuntamento imperdibile per gli appartenenti ad ogni categoria sociale, dalla metodica massaia, sempre attenta a non sforare il modesto budget a disposizione, alla signora “bene”, incuriosita dalla possibilità di strappare un qualsiasi capo firmato ad un prezzo ridotto rispetto a quello ufficiale, ma si rafforza, anno dopo anno, assumendo la qualifica di vitale sfogo della locale economia, più di sussistenza che di vero sviluppo.

Alle spalle dell’industria pesante, infatti, può ben collocarsi il rumoroso ed “anarchico” budello commerciale che ogni martedì attraversa, per alcuni chilometri, una delle arterie periferiche più importanti per una città di quasi ottantamila abitanti: un’imprescindibile risorsa, dunque, tale da far passare in secondo piano le perenni lamentele esternate, anche nel corso di plateali dimostrazioni, dai residenti delle zone urbane divenute, per brevi o lunghi periodi, dimore di un ingombrante ma ricco “ospite”.

“Ma guarda, io non conosco di preciso le cifre, però, posso garantirti, per esperienza personale, che qui ogni martedì si incassano complessivamente alcuni milioni di euro, e non tutti vanno in direzione di quelli con le carte in regola; i residenti possono protestare quando vogliono ma devono capire che Gela, e di conseguenza l’istituzione comunale, non può mettersi contro gli interessi degli ambulanti, locali e non”.

L’abusivismo evocato da questo operatore del settore, presente da oltre un decennio all’interno del locale suk, è uno degli atavici dilemmi generati dallo sviluppo, spesso incontrollato, di una simile “macchina” commerciale, tra le più potenti dell’intero meridione.

Attraversare, durante un normale martedì post-festivo, questa galleria commerciale, però, consente l’accertamento di molteplici criticità. Da sempre le bancarelle ufficiali sono affiancate da postazioni “ufficiose”, che in questo particolare settore devono inevitabilmente dichiararsi abusive; “ma secondo te io che non sono mai riuscito ad avere un “pezzo” di licenza per la rivendita di frutta, prima, ed abbigliamento, dopo, posso evitare di presentarmi il martedì, io devo anche garantire alla mia famiglia un minimo di reddito: il mercato del martedì è troppo importante”.

A quelle degli “irregolari” si affiancano, perlomeno da un quinquennio, voci particolari, totalmente differenti dalle inflessioni dialettali siciliane, eterogeneamente rappresentate tra le postazioni mercatali: quelle degli esercenti cinesi e di molti lavoratori migranti. Mi avvicino, fingendo interesse per alcune felpe in esposizione, ad un’ampia rivendita di abbigliamento tipicamente giovanile, a dirigerla è un esperto operatore, ma a rapportarsi con i possibili acquirenti sono due “dipendenti” stranieri; “che cosa ti serve, felpe 10, pantaloni 20”, dopo aver risposto a quest’indicazione con un gesto uno dei due decide di venirmi incontro, e sfruttando l’occasione gli chiedo se sia alle dipendenze del gestore dello spazio commerciale, “no dipendenze, solo lavoro ogni tanto non solo con questo principale, ma sempre con altri, io e il mio amico veniamo ogni martedì presto e cerchiamo chi ha bisogno: serviamo, pieghiamo la merce, mettiamo gli ombrelloni e alla fine “’u principale” ci dà venti-venticinque euro”, il loro “ingaggio” è ovviamente irregolare, anche se il mio interlocutore non vuole proprio confessarmelo, stupendosi delle mie domande, differenti da semplici informazioni su qualità dei capi, misure e costi: l’ulteriore informazione che riesco ad ottenere riguarda la loro origine, rom, e la provenienza, romena.

Notando che il “principale” inizia a spazientirsi a causa dell’inattività di Ilian, così lo identifica nel suo richiamo, lo ringrazio, comunicandogli che la misura della felpa non è adeguata alle mie esigenze e lo lascio alla routine di un martedì di mercato. A circa cento metri di distanza dalla bancarella di Ilian, nei pressi della spira del serpentone che si adagia sull’ampio muro portante dello stadio comunale “Vincenzo Presti”, un’estesa bancarella, in grado di occupare, solo in lunghezza, almeno una decina di metri, totalmente occupata da jeans e pantaloni, di ogni colore e modello, attira la mia attenzione.

Anche in questo caso l’organizzazione dell’attività appare chiaramente verticale: la grossa cassa in legno, destinata ad accogliere le somme di denaro versate dagli acquirenti, è costantemente sotto il controllo del titolare della licenza commerciale, il quale, quasi a voler ribadire il suo personale ruolo, si erge sui pioli di una piccola scala, normalmente utilizzata allo scopo di raggiungere la merce posizionata alla massima estremità della bancarella, e, al pari della precedente, tre giovani percorrono in lungo e in largo l’intero perimetro occupato dalla struttura in metallo per servire chiunque vi si avvicini.

Perseverando nello stratagemma in precedenza utilizzato, mi avvicino ad uno di questi, e compiendo un’osservazione concernente il colore di un paio di pantaloni cerco di capire chi sia effettivamente questo “commesso ambulante”: si tratta di un romeno di diciannove anni, da almeno due anni inseritosi in questo settore, senza aver mai potuto disporre di una qualsiasi forma di contratto, “la giornata viene anche trenta euro, più una porzione di pasta, il principale ci porta anche a Catania e negli altri paesi dove c’è mercato; è faticoso, però, meglio di niente, solo una volta mi sono fatto male, mentre caricavo la merce sul furgone mi sono tagliato un dito della mano, e me ne sono dovuto andare da solo all’ospedale, proprio a Gela, ho detto che mi ero procurato la ferita accidentalmente, i dottori non hanno voluto sapere altro”.

Salutandolo lo ringrazio per la disponibilità mostrata; il proseguo del lungo cammino è tratteggiato da spezzoni di frenetica attività, intessuti da lavoratori, impensabili da incontrare solo agli inizi degli anni novanta, quando l’ambulante straniero veniva esclusivamente identificato con la figura del magrebino attivo nella vendita di tappeti ed altri prodotti per le abitazioni e gli autoveicoli o del giovane africano sempre pronto a piazzare una qualsiasi copia dei più ricercati generi hi-tech.

Gli operai del commercio, oggi, anche a Gela, parlano una lingua differente dal classico dialetto, sospesa tra quella d’origine e quella, popolare, del luogo che li ospita. Purtroppo, rispecchiando in questo senso la precarietà diffusa tra i propri colleghi italiani, agiscono al di fuori di ogni tutela, a causa di scelte assunte da alcuni datori di lavoro, impavidi di fronte al rischio di eventuali controlli: “lo scorso anno mentre mi trovavo qua al mercato due vigili, mi pare, si avvicinarono alla bancarella e mi chiesero se i ragazzi che mi aiutavano erano miei dipendenti, ma quali lavoratori questi sono giovani, amici miei che mi vengono a dare ogni tanto una mano, qual è il problema?”.

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