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Bayty Baytik, la cultura dell’accoglienza

Di Norma Ferrara il . Sicilia

Invertire i termini del dibattito politico e sociale. Cominciare da se stessi per capire l’altro. Ripartire da  quella cultura dell’accoglienza che nei secoli aveva contraddistinto territori che oggi bruciano, soffocano e vengono dimenticati in fretta, dai media e dalla politica. Dall’emergenza Rosarno ai quartieri di Palermo, il racconto di un’esperienza giovane e innovativa che sta nascendo nel capoluogo siciliano con l’obiettivo di educare all’accoglienza, favorire l’ integrazione e la conoscenza fra migranti e palermitani. Due popoli accomunati dalle stesse difficoltà in un territorio ancora governato, “a macchia di leopardo”, da dinamiche mafiose e da “famiglie” che impogono regole non scritte sul territorio. Per i palermitani come per i migranti. Abbiamo approfondito questo aspetto con Serena Fleres, responsabile insieme a Fabiola Giacone, Samira Zalteni e Agata Frisco, dell’associazione Bayty Baytik nata nove mesi fa e già ieri giunta al suo secondo appuntamento pubblico in sostegno del progetto di Mamma Africa, l’associazione impegnata in progetti volti a dare al villaggio di Ziga in Burkina Faso, una concreta occasione di sviluppo e realizzazione professionale e sociale.

Bayty Baytik partiamo da qui….

Bayty Baytik è un tipico saluto di origine araba che significa Casa tua è Casa mia. Il nome dell’associazione che io, Fabiola, Samira, e Agata, (tre educatrici culturali, e una mediatrice culturale tunisina, ndr) abbiamo fondato ormai nove mesi fa, racchiude al suo interno lo scopo stesso dell’associazione: rendere casa nostra, la casa di chi ha dovuto lasciare la propria terra.  Ci siamo incontrate con uno stesso obiettivo, quello di concentrare l’attenzione non solo sull’aspetto dell’educazione interculturale ma su quello dell’educazione all’accoglienza. Ci proponiamo di “ricordare” un pò a tutti  il valore dell’accoglienza e quanto sia centrale per l’esperienza di incontro con l’altro. Lo facciamo attraverso progetti rivolti proprio alle istituzioni scolastiche, alle strutture sanitarie, ai sindacati, alle questure ecc.. Tutti luoghi in cui avviene l’incontro fra cittadini locali e migranti.

Un dialogo non sempre facile quello fra chi c’è e chi arriva. Avete puntato dunque a fare formazione proprio su chi accoglie?

Si. Ci siamo rese conto, dopo alcuni anni di studio e pratica della mediazione e dell’educazione interculturale qui a Palermo, che è sempre più necessario investire proprio sulle figure professionali che si trovano a lavorare con i migranti. Noi abbiamo deciso di farlo con questa associazione che si è subito messa in rete con tutte le altre realtà che da tanti anni, con molta esperienza e tenacia, lavorano nella città sugli stessi temi. L’abbiamo fatto con un particolare sguardo verso il mondo arabo, la cultura di quel paese, la loro lingua, poichè appassoniate e studiose proprio di quell’area. Questo ci consente di orientare il migrante sul territorio palermitano in cui si appresta a vivere e lavorare.

Che ruolo ha avuto la figura di “Mamma Africa”  in tutto questo?

Mamma Africa è stata da subito la grande ispiratrice dei percorsi di solidarietà e impegno verso il Burkina Faso, nate anche dentro  Bayty Baytik. Il suo contributo è stato fondamentale per noi per capire molti aspetti che vengono trascurati nello studio e nell’aiuto ai migranti.  Abbiamo conosciuto e osservato da vicino il lavoro di Mamma Africa a Palermo. Grazie a lei abbiamo posto più attenzione, alla diversità delle migrazioni: non tutte sono uguali, anzi, si differenziano da paese in paese, e anche per gli obiettivi che stanno all’origine del viaggio: non sempre si tratta di realizzazione personale e miglioramento della propria vita sociale e professionale, ma molto spesso sono originate dalla necessità di mantenere la famiglia nei paesi d’origine. Differenti quindi saranno i modi per interagire e aiutare concretamente queste persone e la loro situazione economico – sociale.

Palermo e gli immigrati. Che rapporto c’è?
 
Rispetto ai fatti di Rosarno qui a Palermo, a nostro avviso, non sono ancora emersi situazioni cosi radicali. Ci sono alcuni immigrati che sono integrati in maniera ottimale nel territorio. Ci sono differenze fra i vari quartieri, e le diverse aree della provincia palermitana. Ciò detto sinceramente in alcuni quartieri diciamo “difficili”, in cui in particolare abbiamo lavorato io e Fabiola, le differenze fra migranti e residenti sono talvolta minime. Al ribasso, ovviamente: si tratta, in sostanza, troppe volte di una guerra fra poveri e spesso si crea con più facilità un clima di collaborazione e solidarietà che non di razzismo o differenziazione, anche fra i ragazzini di qualsiasi etnia o età. La sensazione è che qui ci sia prima ancora di queste possibili discriminazioni, un controllo del territorio molto più forte…. e che continui a restare quella la vera differenza fra cittadini, migranti o residenti che siano.

Parli di Cosa nostra?

Si, la pressione della criminalità organizzata anche se non in tutti i quartieri, c’è. Questo a mio avviso lascia poco spazio a fenomeni che si riscontrano nel nord Italia. Non passa in secondo piano, quindi il fatto che qui  l’aggravante che rende difficile la vita anche ai migranti, è la mafia. Non possiamo nasconderlo. In questi giorni i fatti di Rosarno, i drammatici racconti degli africani, parlano di caporalato, mafie e sfruttamento. Io credo che Palermo non sia immune.  Esiste lo sfruttamento, esistono le schiavitù. Cambia forse il metodo di pressione ed oppressione che Cosa nostra ha sui migranti in Sicilia, rispetto alla ‘ndrangheta. Ma continuiamo a vedere positive esperienze crescere nella città, nonostante tutto.

In questa “difficoltà a vivere sul territorio” Palermo è una città che accoglie?

Si, questo è quello che percepiamo, soprattutto nei cosiddetti quartieri difficili. Mamma Africa ci racconta spesso di piccoli episodi razzisti subiti ma anche di belle esperienze: nell’aiutare i migranti molto spesso le differenze saltano e ci ha narrato  di essersi trovata a cucinare per le donne palermitane e le migranti dello stesso quartiere. Sembra paradossale, ma la situazione talvolta è questa. Rimangono poi delle difficoltà nell’intergrazione culturale dovute ad una non conoscenza dell’altro. Una delle ragazze che anima questa associazione è tunisina, si chiama Samira. Da un pò di tempo a questa parte ha scelto di non portare più il velo, si sente molto osservata, e questo non la fa stare a suo agio. C’è una conoscenza dei fatti mediata da luoghi comuni, da notizie inesatte. Questo il problema principale a Palermo nel rapporto fra i migranti e i cittadini palermitani.

Quanto potrebbero fare le istituzioni locali, penso all’amministrazione comunale, in questo percorso?

Molto. Purtroppo in questi mesi ci sono numerose emergenze in città: dalla spazzatura, ai debiti contratti nella gestione della cosa pubblica a tanti altri problemi. C’è una situazione di “emergenza totale” che ha fatto mettere in secondo piano, questa “emergenza” sempre aperta, sul versante della vita dei migranti, non solo in città ma anche in periferia. In generale l’amministrazione comunale potrebbe investire molto di più nei confronti delle realtà che spesso, in numero esiguo e con pochi fondi, si trovano a gestire emergenz
e umane e sociali di grande portata.

Il 17 gennaio siete tornati nei quartieri con una seconda iniziativa in risposta alla solidarietà già mostrata dai palermitani in sostegno ai progetti in Burkina Faso. Di cosa si è trattato?

Il sogno di Mamma Africa è diventato anche il nostro, come dicevo prima. Grazie al successo del primo evento di beneficenza (realizzato il 5 aprile scorso),  Bayty Baytik è riuscita ad ottenere dal governo Burkinabè un lotto di terreno pari a 10 ettari idoneo per la realizzazione del progetto: la costruzione di una scuola artigiana in terra d’Africa s’inserisce nel quadro dei progetti di “aiuto allo sviluppo” dell’Africa, consentendo la formazione professionali di numerosi uomini e donne (formati negli appositi laboratori di ceramica, ebanista, pittura e di decoratore che verranno realizzati). Lo scopo è quindi quello di costruire su piccola scala un progetto abitanti di una piccola provincia del Burkina Faso, consentendo loro di vivere e lavorare in condizioni più umane e dignitose e garantendogli, al contempo, un giusto guadagno. Questo risutlato ottenuto ci ha spinto a dare una risposta più immediata, subito e ieri abbiamo dato appuntamento ai palermtani in una serata nella quale abbiamo anche trasmesso video e voci provenienti da questo villaggio, creando un canale di comunicazione fra i ragazzi di Palermo e quelli di Ziga. Eravamo in 400…

A Palermo  nei percorsi di legalità e integrazione nelle scuole palermitane,  avete incontrato Libera. Com’è nata questa collaborazione?

C’è un legame profondo dentro questa città che lega queste battaglie: quella contro il razzismo e per l’integrazione e quella per la legalità. Libera Palermo ci ha dato la possibilità di partecipare e proporre i percorsi formativi nelle scuole, nel settore formazione. Questo è stato un bell’incontro che ci ha messo in grado di intervenire, insieme a Libera, portando avanti un’educazione alla legalità che tenga conto dell’altro, che sia italiano o straniero, animando percorsi di convivenza democratica nella legalità. Da questo incrocio è nato un legame solido e vivace sul territorio palermitano che sta allargando la rete di contatti, lo scambio fra territorio, migranti e istituzioni per la legalità. Curiamo l’aspetto interculturale tramite laboratori, giochi, materiali audiovisivi, testimonianze. Libera Palermo a nostro avviso ha percepito prima di altre realtà la capacità di internazionalizzarsi delle mafie e accettato da subito, su un territorio difficile come Palermo, questa di raccogliere questa sfida.

Un’associazione di donne che aiutano anche altre donne migranti. Con quali occhi di donna si vede Palermo da migrante?

L’associazione è al momento animata da quattro donne giovani, e non solo italiane. E’ stata un pò una casualità. Solo dopo i primi mesi ci siamo rese conto che questo da diventando  il nostro punto di forza. Penso soprattutto al lavoro di decodifica dei linguaggi e dell’immagine della donna araba. Troppo spesso si ha un’ immagine della donna musulmana come di “una donna afflitta addolorata e sottomessa”. In questi anni abbiamo studiato il Corano e ci siamo rese conto che ci sono dentro molti riferimenti al mondo femminile interpretati o recepiti all’esterno in maniera imprecisa. Così –  con il  contributo proprio di queste donne – cerchiamo di educare ad una visione della figura femminile legata ai fatti reali, a com’è davvero, a quello che fa e non a come la raccontano. Penso anche al ruolo giocato dal mondo dell’informazione: alcune settimane fa abbiamo letto che a Milano c’erano donne che passeggiavano con il Burqa per strada. Abbiamo sorriso nel leggere queste affermazioni perchè nemmeno negli Emirati arabi le donne con il  Burqa escono di casa. Con molta probabilità quello cui si riferiva chi aveva scritto l’articolo era invece lo Chador. Questo solo per dire che anche il linguaggio ha la sua importanza e spesso si fa portatore di pregiudizi nella mente degli uomini e delle altre donne.

 

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