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Trapani e i beni confiscati

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Il mondo accademico, chiamato a raccolta all’Università di Trapani, per due giorni, il 26 e 27 giugno, si è interrogato sulla possibilità di avere un nuovo percorso nell’intricata gestione dei beni sequestrati e confiscati. Riconosciuta, in particolare all’esito della tavolo rotonda conclusiva di ieri mattina, è stata l’importanza del convegno ma gli accademici, i giuristi, gli studiosi da soli non bastano. La «criticità» che si è detto sarebbe stata rivolta all’attuale legge, è stata infine rivolta ai politici per come si stanno comportando.

Fatta questa premessa ci si deve soffermare su di un dato. Quello che probabilmente sarebbe stato utile fare riferimento a ciò che è accaduto e succede nel territorio trapanese a proposito di beni sequestrati e confiscati. Perché gli esempi positivi non è difficile trovarli. Se lo si vuole. La due giorni di discussioni con autorevoli relatori, professori universitari, magistrati e giudici, avvocati, dirigenti e funzionari pubblici, a cominciare dal rettore di Palermo prof. Lagalla, si è articolata proprio in un momento in cui l’applicazione della “Rognoni-La Torre” in provincia di Trapani ha conosciuto notevoli momenti di applicazione: ci sono stati i maxi sequestri ai danni degli “imperi” che sarebbero stati alzati grazie alla complicità e all’appoggio mafioso ottenuto dagli imprenditori Giuseppe Grigoli e Rosario Cascio, il “re” della grande distribuzione il primo, l’altro uno degli imprenditori più in vista nel Belice, c’è stato il sequestro della storica azienda di produzione di calcestruzzo di Mazara di proprietà del super boss Mariano Agate, c’è stato il colpo inferto a quell’imprenditore che sebbene in carcere, il valdericino Tommaso Coppola, gestiva imprese e residence turistici, manipolava fatture e libri contabili per truffare lo Stato e ottenere a favore delle sue aziende fondi pubblici derivanti dalla legge 488.

Questo per dire che non è tanto vero che la legge che oggi si applica sul sequestro e la confisca dei beni non è tutta da buttare via, e che forse quando non ha funzionato è stata colpa di qualche pubblico funzionario o che per pigrizia o per ignavia o complicità addirittura, se ne è disinteressato. E’ vero che in questi mesi, ma anche prima, sono emersi problemi relativi alla gestione dei beni, ma questo è dipeso da amministratori poco capaci, e in qualche caso è intervenuta la rimozione, o dall’intervento delle banche che hanno deciso di non concedere più agli amministratori giudiziari la fiducia che concedevano dapprima a chi gestiva le stesse aziende e cioè quei soggetti scoperti dopo essere mafiosi o prestanomi dei boss.

A Trapani e di questo si è parlato è scattato un progetto pilota, si è firmato un protocollo tra ministero dell’interno, prefettura, banche e amministratore giudiziario del gruppo Grigoli che proprio sul versante del credito garantisce una serie di interventi. Se funzionerà verrà esteso anche ad altre realtà e aziende sequestrate e confiscate.  A Trapani è successo anche altro, c’è stata la storia della Calcestruzzi Ericina, tolta ai mafiosi, impedita nel fallimento, preordinato dai mafiosi, con la complicità delle imprese che lì non andarono più a comprare cemento, salvata dall’intervento di un prefetto, Fulvio Sodano e oggi gestita dai dipendenti che hanno costituito la cooperativa e con l’aiuto di Libera, di pochi uomini delle Istituzioni, di una banca, Unipol, di un paio di imprese, del settentrione e nord d’Italia, oggi è esempio chiaro che la mafia può essere battuta e che sequestro e confisca, quando di mezzo vi sono amministratori giudiziari onesti, come Luigi Miserendino, possono portare al reinserimento nel mercato legale.

Volendo dare, come hanno detto, un contributo alla migliore gestione dei beni confiscati, non parlando della Calcestruzzi Ericina c’è il rischio di mettere in ombra l’unico vero caso di vittoria dello Stato nella gestione delle aziende confiscate alla mafia. Nella conta delle esperienze trapanesi c’è da ricordare il tentativo della mafia di impedire l’azione di confisca, in fin dei conti era il 2001 quando ci si rese conto che beni confiscati restavano in mano ai mafiosi che ne erano stati espropriati, che i familiari del capo mafia di Trapani Vincenzo Virga continuavano ad abitare la palazzina elegante loro confiscata, e che prima di andare via ebbero il tempo di smontare infissi e arredi come se nulla fosse, ci sono poi le intercettazioni del capo mafia Francesco Pace che aveva la fissa sui beni confiscati e auspicava che qualcuno cambiasse la legge prima che a lui venissero tolti i suoi possedimenti.

Qualcosa per migliorare le cose però va fatta. Intanto allora serve coinvolgere la società civile e l’esperienza di chi da tempo si occupa di beni confiscati. La voce più autorevole in questo senso che si è ascoltata è stata senza dubbio quella di don Luigi Ciotti, presidente di Libera: un «sassolino» dalla scarpa se lo è tolto, quando ha chiesto un po’ a tutti i presenti dove erano stati in questi decenni di lotta per costringere la mafia a restituire il maltolto, «spesso – ha ricordato – siamo stati soli, ci hanno costretto a chiedere l’elemosina per fare funzionare le cooperative che hanno gestito e gestiscono i terreni confiscati, la Calcestruzzi Ericina si è salvata con l’impegno dei privati, di un prefetto e del Demanio».

Attacco a politica e legislatore. Sempre don Luigi Ciotti ha indicato «la schizofrenia del paese, leggi che hanno calpestato altre leggi». Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso lo ha detto chiaramente: «Fare le leggi e non dare gli strumenti significa non avere fatto nulla. Serve – ha aggiunto – un testo unico delle norme antimafia».

Vendere i beni confiscati. La proposta del procuratore Messineo. «Il sistema delle misure di prevenzione patrimoniale di gestione dei beni confiscati, ha un difetto, è farraginoso» ha aggiunto il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, che si è inoltre detto favorevole alla vendita dei beni immobili sequestrati: «La vendita è oggi consentita per le aziende e non per gli immobili; perchè fare questa distinzione? È opportuno correre questo pericolo, di mettere in vendita anche gli immobili, se un mafioso si farà avanti verrà perseguito». Una dichiarazione che non ha trovato tutti convinti. Perchè il mafioso non vuole riprendersi un bene confiscato, non vuole diventare proprietario di qualcosa, per una questione di «arricchimento», ma il possesso costituisce un simbolo da esporre, prima che una risorsa economica, col bene si occupa uno «spazio» sociale, si è presenti. Confiscare un bene, rivenderlo, col mafioso che potrebbe riuscire a riprenderselo, alimenterebbe, in un territorio dove le “sirene” della mafia hanno esercitato un certo effetto di coinvolgimento, l’idea che le confische a danno dei mafiosi danneggiano l’economia reale e non garantiscono un sistema virtuoso di economia e sviluppo nella legalità, e che lo Stato è facile alla resa.  

Le reazioni. “L’esempio che abbiamo da offrire al procuratore Messineo – commenta l’amministratore giudiziario Luigi Miserendino –  è l’esperienza trapanese della Calcestruzzi Ericina, nella quale senza concreto appoggio di politici potenti ed enti locali (anzi forse con la loro occulta ostilità) siamo riusciti nell’intento di dare dignità all’azienda confiscata e a chi ci lavora, e di sconfiggere definitivamente l’immagine vincente del mafioso Virga che comandava e faceva girare per il suo verso quel pezzo di economia trapanese”.

Don Luigi Ciotti lo ha detto, ma lo ha fatto bene intendere. Probabilmente se ci si vuole muovere col piede giusto a proposito di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia e alla criminalità in genere bisogna partire dall’esperienza posit
iva, ricca di tanti retroscena, della Calcestruzzi Ericina.

Trapani è un «mix» di vicende a proposito di beni confiscati, ha avuto gli amministratori giudiziari che si mettevano d’accordo o subivano l’influenza mafiosa, aveva i boss che sebbene spogliati dei beni continuavano a possederli e a gestirli, ma ha anche conosciuto prefetti, inquirenti, investigatori che si sono adoperati perchè tutto questo avesse fine. E tutto questo ancora fino a pochi giorni addietro. Perchè la mafia non abbandona facilmente il campo. «C’è ancora molto da fare», concludeva così il suo intervento il prof. Alfredo Galasso. «Sono  d’accordo – dice don Francesco Fiorino che con la sua fondazione gestisce alcuni beni e ne conosce da vicino i problemi – e forse per questa ragione si poteva far parlare chi si occupa della materia. Ma che c’è molto da fare ancora lo dico per avere notato tante assenze di politici e amministratori che avrebbero dovuto esserci,  tranne qualche eccezione». Il prof. Galasso ha detto di non credere, a malincuore, al ruolo degli enti locali. È loro causa se ci sono ancora beni confiscati non utilizzati socialmente: «Questi beni non assegnati – dice don Fiorino – costituiscono una “ferita aperta” nel nostro territorio».

Confische e incompiute. «Che fine ha fatto l’agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati – ha chiesto don Ciotti – Nella finanziaria del 2006 è previsto che i corrotti vengano fatti oggetto di confisca dei loro beni da destinare ad uso sociale, cosa è stato fatto?»; e rivolto alle banche: «Cosa ci vuole perchè vengano tolte le ipoteche sui beni confiscati che così non possono produrre reddito e occupazione reale e legale».

Anche il procuratore Grasso non ha mancato di sollevare «criticità» come ha chiosato il prof. Giovanni Fiandaca che moderava la tavola rotonda: «Dal 2005 al 2008, a fronte di 13.373 condanne in cui era possibile adottare la confisca dei beni i provvedimenti di natura patrimoniali sono stati appena 59». Riferendosi ai progetti di riforma della legislazione in materia, Grasso ha sottolineato che, dopo i suggerimenti avanzati dalla commissione Fiandaca (istituita nel 2001 per riformare le normative antimafia, ndr) «si è fatto uno zapping tra le proposte: questa ci conviene, quest’altra no».
 

La realtà di oggi. Il cemento qui in provincia di Trapani lo vende lo Stato. Ogni caso ha una sua storia. Nomi differenti, l’oggetto è però identico, riguarda la gestione, nel tempo, di impianti di calcestruzzo da parte della mafia. Vicende giudiziarie non legate tra loro solo per il fatto che le indagini scadenzate nel tempo non hanno potuto avere un unico processo. Questo non ha sgonfiato il caso clamoroso dell’infiltrazione di Cosa Nostra nel tessuto imprenditoriale, ci sono state le condanne, tutte pesanti, i sequestri prima e in molti casi le confische, alcune già definitive. Il comune denominatore è quello di «mafia e cemento». In buona parte è stato cancellato. Le indagini antimafia hanno portato a compiere sequestri e confische e con la nomina degli amministratori giudiziari adesso in provincia di Trapani è  lo Stato a vendere il cemento. Lo Stato qui controlla molte società di produzione cementizia, «il 90 per cento delle imprese» dice il vice questore e capo della squadra mobile Giuseppe Linares.

Il fenomeno è così vasto che stranamente però passa sotto silenzio. Probabilmente, viene da dire, prenderne atto significa ammettere come la mafia a Trapani ha avuto un alto tasso di infiltrazione nel tessusto sociale ed imprenditoriale della città, è questa presa di coscienza che non si vuole forse fare.

L’ultimo caso in ordine di tempo è stato il sequestro ad opera di Polizia e Finanza della «Calcestruzzi Mazzara», appartenente al capo mafia Mariano Agate. Ricorda per molti versi la storia di un’altra azienda, la Calcestruzzi Ericina appartenuta al capo mafia di Trapani, Vincenzo Virga. Imprese che come altre hanno gestito nel settore del cemento un monopolio esercitato con la forza intimidatrice mafiosa, ma non solo: sono stati secondo le risultanze investigative le «sedi» di Cosa Nostra, a Trapani e a Mazara, all’interno si sono svolti summit, sono stati decisi delitti. «Ogni mandamento mafioso di Trapani – ha spiegato il capo della Mobile Linares in occasione del sequestro dell’azienda di Mazara di proprietà di Agate – ha avuto il suo impianto di calcestruzzo, impianti usati per sovvertire le regole del mercato e fare un mercato in chiave mafiosa. È la particolarità della mafia trapanese, che è capace di essere militare ma anche imprenditoriale».

Lungo l’elenco dei capi mafia e degli uomini d’onore che facevano gli imprenditori del cemento, oltre a Virga e a Mariano Agate: Mariano Saracino a Castellammare, i Melodia ed i Milazzo con la Tre Noci di Alcamo, Rosario Cascio nel Belice, Errera a Marsala, Vincenzo Mannina e Tommaso Coppola a Valderice, Ciccio Pace a Pietretagliate, da ultimi l’alcamese Popò Pirrone ad Alcamo e il partinicense Benny Valenza a Castelvetrano dove vendeva cemento «annacquato». Calcestruzzo ne vendevano assai, aveva il sigillo mafioso e chi lo comprava lo sapeva, non si spiega altrimenti perchè la maggiorparte delle commesse veniva concordata con loro, lasciando all’asciutto altre aziende.

Considerazione finale. La mafia trapanese resta bene infiltrata nella borghesia, e questo è il pericolo da cogliere. Oggi la mafia militare ha posato le armi perché ha trovato altre soluzioni per intaccare l’azione di contrasto. Ha la possibilità di colloquiare con uomini delle istituzioni, della politica, arrivare dentro i ministeri e le stanze dei ministri, e dentro le redazioni e le stanze dei direttori di giornale di tutta Italia, nei centri nevralgici del potere democratico. Allora bisogna partire da qui, tacere questo, vicende che sono scritte nelle sentenze di condanna pronunciate dai Tribunali, anche da quello di Trapani, significa rischiare di diventare complici. Trapani in questi giorni sembra uscire dall’incapacità di indignarsi, la faccenda dell’intimidazione “scritta” sotto il cavalcavia di una autostrada contro il capo della squadra Mobile Giuseppe Linares, ha suscitato una serie di reazioni contrarie alla mafia e a favore di Linares e di chi combatte la mafia. Anche su questo aspetto c’è da fare un paio di riflessioni. La prima che tra i commenti di solidarietà ce ne è stato qualcuno che ha, giustamente, detto che non bisogna personalizzare la lotta a Cosa Nostra. Verissimo, e in effetti il lavoro proprio di Linares dimostra che i tempi andati non sono più tornati, oggi non c’è, anche nella magistratura per la verità, una memoria storica, un personaggio che dentro di se raccoglie segreti e spunti investigativi, ma esiste una squadra, dove se uno cade il lavoro non si ferma. E di questo Cosa Nostra ha consapevolezza ed ha più paura. Ma è anche vero che non sono tanti i soggetti della lotta alla mafia, il cerchio si chiude attorno a pochi e non si allarga molto. E dunque si finisce sempre col personalizzare e con l’esporre le persone, cosa che forse non viene provocata nemmeno tanto apposta. Altra riflessione. Trapani oggi scopre l’intimidazione e si inorridisce, e però non può prendersela con nessuno, la frase è anonima e non è attribuibile ad alcun soggetto fisico. Trapani è rimasta in silenzio quando l’intimidazione ha avuto come matrice un nome e un cognome, uno scenario ben visibile di commistioni, e cioè quando sono diventate note le intercettazioni dove un certo Ciccio Pace, un sorvegliato speciale che frequentava i politici, capo mandamento – per sua stessa auto definizione – della mafia trapanese, si augurava che Linares, il questore e quel “testa di minchia” del prefetto Sodano, venissero trasferiti. Una storia scritta tante volte, ma mai apprezzata per intero.

Come è finita è cosa nota, Sodano

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