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Salvatore Miceli, il boss del narcotraffico

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Non è un arresto di un qualsiasi mafioso, semmai ne esistano di boss cui dedicare scarsa considerazione, quello compiuto sabato in Venezuela dai Carabinieri di Trapani, mentre in Italia era notte fonda. Perché Salvatore “Totò” Miceli, 63 anni, originario di Salemi, capo mafia del paese belicino, è uno di quelli che contano parecchio dentro l’organizzazione mafiosa siciliana e deve essere, come lo è, tanto importante da essere uno dei pochi ad essere stato “graziato” quando Giovanni Brusca aveva deciso di ucciderlo, quando comandava a San Giuseppe Jato, ed era il più vicino a Riina e Bagarella. Brusca si dovette fermare e Miceli continuò ad occuparsi degli affari di cui era specialista, il traffico di droga dal Sud America.

Latitante dai primi anni del 2000, lo hanno arrestato i carabinieri di Trapani “volati” apposta a Caracas quando hanno avuto certezza che dalla Colombia era tornato a spostarsi in Venezuela. La sua voce è finita intercettata su un sofisticato sistema di comunicazione via web, forse Miceli e i suoi complici lo ritenevano non intercettabile, ma non è stato così. I militari hanno saputo che due persone, un uomo e una donna, sarebbero andati ad incontrarlo, e non hanno fatto altro che seguirli. Non è stato facile ma un lungo pedinamento a Caracas durato 72 ore infine ha avuto esito positivo per i militari dell’Arma che nel frattempo avevano visto posti al loro fianco Interpol e Polizia venezuelana: Miceli lo hanno fermato appena fuori un albergo a 5 stelle della capitale del Venezuela, dove aveva preso in affitto una suite. Il boss aveva un passaporto falso, pochi attimi e ha ammesso le sue vere generalità. I due siciliani che erano andati ad incontrarlo sono stati identificati e rilasciati.

 La loro storia è appesa alle sorti che avrà la parallela indagine sui fiancheggiatori italiani (trapanesi e palermitani) del boss preso a Caracas. Miceli è stato condannato in via definitva per mafia (processo cosidetto Petrov) è in attesa di diventare definitiva invece una condanna (processo Igres) per una operazione condotta da Polizia e Finanza su un maxi traffico di cocaina tra Colombia, Sicilia e Calabria, nel frattempo i carabinieri hanno continuato ad indagare su di lui, sempre a proposito di smercio di droga in gran quantità. Le indagini condotte dai Carabinieri di Trapani sono coordinate dai pm della Dda di Palermo, Teresa Principato e Pierangelo Padova.

Non è un mafioso qualsiasi quello arrestato, e lo testimoniano le congratulazioni che i ministri dell’Interno e della Difesa, Maroni e La Russa, hanno rivolto al comandante generale dei Carabinieri che li ha girati ai militari del nucleo operativo provinciale di Trapani diretto dal capitano Antonello Parasiliti. Questi è stato a capo della intelligence che ha “beccato” Miceli al telefono, lui ovviamente non si tradiva né chi parlava con lui lo faceva, ma la trappola è scattata quando il 12 aprile scorso l’interlocutore ha fatto gli auguri a chi stava all’altro capo del telefono, per il capitano Parasiliti era la conferma che gli auguri erano rivolti a Miceli, non ci ha messo tanto tempo a capirlo, è stata una certezza presa al volo, da tempo era sulle tracce di Miceli, sapeva a memoria che il 12 aprile era il giorno del suo compleanno, perché quel giorno anche il capitano festeggia il proprio. A quel punto c’era da aspettare il momento propizio che è presto giunto, sabato scorso per l’appunto. Molti particolari ancora vengono tenuti riservati, non foss’altro perché c’è da stringere il cerchio attorno a chi stava dando una mano d’aiuto a Totò Miceli.

Per adesso parla solo la cronaca giudiziaria che riguarda il narcotrafficante. Uno dei primi rapporti su di lui risale agli anni ’70. A firmarlo l’allora capo della squadra Mobile di Trapani Giuseppe Peri. E’ il rapporto che mette in relazione la mafia e gruppi dell’eversione di destra. Un rapporto che varrebbe oggi la pena rileggere, considerato che alcuni dei potentati economici e criminali sono rimasti in piedi, hanno trovato precisi eredi, si sono pure radicati nella politica, l’obiettivo di sempre è rimasto quello di mostrare uno Stato incapace di agire. «Esiste una potente organizzazione dedita alla consumazione dei sequestri di persona, con richiesta di altissimi riscatti per fini eversivi. I mandanti dei sequestri vanno ricercati negli ambienti politici delle trame nere e in ambienti insospettabili. Sequestri di persona, attentati, omicidi, tutto fa parte di un’identica strategia intesa a determinare il caos». Iniziava così il «rapporto Peri», inviato alle Procure di Palermo, Agrigento, Trapani, Marsala, ed anche a Torino, Roma e Milano. Quaranta pagine che finirono archiviate. Lo spunto investigativo del vice questore Peri erano stati quattro sequestri di persona, una serie di delitti. La «pista» seguita quella di un patto di sangue tra mafia ed eversione nera. Tra i capi di Cosa Nostra e capi terroristi come Pierluigi Concutelli, a capo di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.  Tra i sequestri quelli degli imprenditori Campisi e Corleo. Base di tutto il territorio di Salemi, dove mafia, politica ed imprenditoria ancora oggi siedono allo stesso tavolo. Peri individuò anche dei campi paramilitari nel trapanese.

Erano i primi anni ’70. Gli stessi campi sembrano essere quelli usati quasi 20 anni dopo da Gladio, tra Castelluzzo e Custonaci, tra Erice e Menfi. Tutto questo tra il 1970 ed il 1975. Anni caldi. Sono gli anni in cui nel Canale di Sicilia cominciano strani traffici, scambi di armi, depositi inviolati sarebbero esistiti dentro le grotte dell’isola di Levanzo. A stringere il patto sarebbero stati il terrorista nero Pierluigi Concutelli e il capo mafia di Salemi, Nino Zizzo, zio di Totò Miceli. «Pecorai» divennero sequestratori, non erano mafiosi (lo sarebbero divenuti) e dunque, se individuati, potevano trarre in inganno sui mandanti dei sequestri di persona nei quali erano coinvolti. E nel rapporto del vicequestore Peri finì allora denunciato lo sconosciuto Salvatore Miceli.

A metà degli anni ’90, nel marzo del 1994, sono i Carabinieri di Trapani ad arrestarlo, nel corso dell’operazione Petrov, che è l’indagine che scompagina tutti e 4 i mandamenti mafiosi della provincia e ne individua i capi in assoluto, Vincenzo Virga a Trapani, Mariano Agate a Mazara, Francesco Messina Denaro a Castelvetrano, i Melodia e i Milazzo ad Alcamo. Miceli ne esce condannato e quando questa condanna nel 2001 divenne definitiva riesce a sfuggire all’arresto, e da allora sino a sabato scorso è stato latitante. Nel frattempo partecipa a summit, come quello di San Vito Lo Capo, estate del 2000, al residence Conturrana, oggi confiscato, dove incontra un emissario di Bernardo Provenzano, Pino Lipari. Durante la conversazione, nella quale vengono discussi temi riguardanti la riorganizzazione di Cosa nostra sotto il controllo di Provenzano, Miceli  racconta anche di avere corso il pericolo di essere ucciso da Giovanni Brusca, a seguito di un fallito traffico di stupefacenti, per un importo complessivo di 500 mila dollari, che gli era stato affidato dall’allora boss di San Giuseppe Jato. Durante quella conversazione, il padrino di Salemi riceve da Lipari una sorta di investitura ufficiale per organizzare un nuovo traffico di stupefacenti per conto delle cosche trapanesi, con l’avallo del capo di Cosa Nostra. Durante quell’incontro il consigliori di Provenzano parla anche di una serie di summit mafiosi, nel corso dei quali i boss avrebbero criticato le scelte stragiste volute da Toto’ Riina. Una situazione condensata in un sola frase che la “fotografa”

Lipari:  
il giocattolo si è rotto.
MiceliRimettiamo sto giocattolo au drittu. Che succede se io, dice non ricevo dal carcere le indicazioni di farlo… perché significa che io devo andare contro di loro.  
 
Lipari: Che successe?  
Miceli:  Contro Totuccio…Certo!Riina…Certo!Contro Bagarella!Certo!

Il maxi traffico da organizzare è quello che Polizia e Finanza sgomineranno con l’operazione, nome in codice Igres. L’ordine ad organizzare questo maxi traffico di cocaina tra la Colombia e l’Italia passando per la Sicilia con terminale la Calabria, venne dato da uomini vicini all’allora latitante Bernardo Provenzano. Il consenso arrivò anche dalle carceri, e Mariano Agate, boss di Mazara, attraverso il figlio, Epifanio. La mafia siciliana decise così di allearsi con la ndragheta calabrese di Platì. La cocaina doveva giungere dalla Colombia una volta con la “Mirage II”, che però finì con l’affondare con le stive piene di cocaina davanti la costa del Venezuela; un altro carico venne sequestrato invece in un  porto del Pireo, 220 chilogrammi di cocaina confezionata in panetti; l’unico carico che finì nelle mani delle organizzazioni mafiose, fu quello prelevato nelle isole Canarie.

Il nome di Totò Miceli si intreccia con quello di un altro pericoloso narcotrafficante, Paul Waridel, sessantenne, turco d’origine, elvetico di adozione. Arrestato è finito in carcere in Svizzera, dove la corte del Canton Ticinio lo ha appena condannato a 18 anni di carcere. Secondo l’accusa Waridel, nel corso del 2001 fino all’inizio del 2002, durante l’espiazione della pena presso i carceri di Witzwil, Pct e Regensdorf, avrebbe coordinato un traffico internazionale di cocaina, avrebbe sfruttato i propri contatti e le proprie conoscenze per organizzare il traffico ed il trasporto della cocaina destinata alle famiglie italiane, dalla Colombia all’Europa. Nemmeno Paul Waridel è uno qualsiasi, è uno di quelli che conosce i mafiosi trapanesi. Anzi è con loro che sviluppa i suoi affari.

Quando un giorno il giudice Giovanni Falcone riuscì ad interrogarlo, convincendolo quasi a “collaborare”, Paul Waridel iniziò i suoi racconti, sulle raffinerie di droga “volanti” che giravano per la Sicilia occidentale e per la provincia di Trapani, facendo tre nomi: Andrea, Mario e Saro, in pratica Andrea Manciaracina, Mariano Agate e Salvatore Tumbarello, tutti e tre mazaresi, tutti e tre suoi “clienti” di droga. Poi decise di fare marcia indietro, di non raccontare più nulla. Perché si presume che di segreti da svelare ne aveva diversi. A cominciare dai contatti con la massoneria. Non a caso a Milano i magistrati che si occuparono della “Duomo connection”, e anche quelli che si occuparono del delitto del banchiere Roberto Calvi, hanno anche loro finito con l’imbattersi in Paul Waridel. La conferma arriva dall’ex pm di Trapani Carlo Palermo, e ne fa cenno in una memoria depositata a Caltanissetta a proposito della strage di Capaci del 1992. “

A Buenos Aires, nell’edificio Cerrito 1136 c’era la sede del Banco ambrosiano di Roberto Calvi e gli uffici della ditta Las Acacias che, come risulta da alcuni processi, è stata al centro di un giro di denaro proveniente dal traffico di droga tra Brasile, Usa, Italia e Svizzera. La Acacia è una società del clan italoamericano dei Bonanno. Ai Bonanno fa capo anche la Traex company. Davanti agli uffici di quella ditta, nella settimana di Pasqua del 1982, poco prima della morte del banchiere piduista Roberto Calvi, avvennero due incontri: al primo partecipavano i finanzieri Oliviero Tognoli e Leonardo Greco (implicati nel processo Duomo connection) e, forse, Pippo Calò, il cassiere di Cosa nostra, già condannato per la strage del treno 904 e imputato al processo per la strage di Capaci; al secondo incontro presero parte anche il trafficante di droga turco Yasar Mussululu e il suo socio Paul Waridel.

 Su questi episodi – prosegue Carlo Palermo – stava indagando Giovanni Falcone nel 1989, nello stesso periodo del fallito attentato all’Addaura». Il nome di Mussulu salta fuori anche in un’altra indagine, quella sulla raffineria di droga di Alcamo. E parte del denaro intascato con il narcotraffico che passava per la Sicilia si è scoperto finivano sui conti dei finanzieri della Duomo Connection.
 

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