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Immobiliare mafia. Succursale nord

Di Emanuela Zuccalà il . Liguria, Lombardia, Piemonte

«Dicono che nel centro storico di Genova ci sia la mafia. Lei che ne pensa?».
Da dietro il bancone del bar il fratello del boss, canuto e distinto in
cravatta rosa, allarga lento le braccia con una smorfia fra stupore e
disgusto. Pausa, e subito riattacca il suo monologo sulla Resistenza in
Sicilia, un modo elegante per dirci che alle domande, lui, non
risponde. È rabbioso, e si capisce. Un’ora fa, a pochi carrugi da qui,
il sindaco di Genova con Nando dalla Chiesa e i ragazzi
dell’associazione «Libera» hanno alzato due saracinesche in vico Mele
14 annunciando che lo stanzone ammuffito diventerà uno spazio di
aggregazione per la gente onesta del quartiere Maddalena, arcistufa di
prostitute, magnaccia, spacciatori. E di mafiosi. Quelli come il gelese
Rosario Caci, 54 anni, uomo degli Emmanuello affiliati a Madonia e
signore della droga nel centro storico.

Il basso in vico Mele e il primo piano gli vengono confiscati
nel 2005 ma lui ci resta altri due anni, minacciando gli operai che ne
ristrutturano una parte per conto del Comune e costringendoli a
lavorare sotto scorta. Sgomberi notificati e rinviati, ricorsi in
tribunale, gli altri inquilini gravati pure delle sue quote
condominiali, finché nel dicembre 2007 l’abusivo si decide ad andarsene
e ora, ufficialmente invalido e nullatenente, alloggia in hotel a spese
del Comune. Ma questa è un’altra storia. Per Christian Abbondanza
dell’associazione «Casa della legalità», che ha denunciato pigrizie
istituzionali, «a Locri sono più veloci». Locri, Corleone, Genova o
Milano, ormai fa poca differenza. Le holding del crimine, ’ndrangheta
su tutte, si globalizzano e non da ieri lavano e sbiancano soldi
sporchi dove scorrono più soldi, cioè al Nord. Sugli 8.446 immobili
sottratti ai patrimoni mafiosi, se 7.152 stanno al Sud (3.930 in
Sicilia, 1.631 solo a Palermo) e 391 in Centro Italia, ben 903 sono
invece nelle regioni settentrionali, e anche qui lo Stato non ha vita
facile nel riconvertirli a scopi sociali come vuole la legge. A
Garbagnate Milanese, il bar della stazione apparteneva ai picciotti del
palermitano Gerlando Alberti, famoso per la sua frase sulla mafia: «Che
è? Una marca di formaggi?».

Serrato dagli anni Ottanta, riaperto e richiuso per droga, solo
l’anno scorso il bar è assegnato a una cooperativa che ne fa una
bottega equa e solidale ma fatica a terminare la ristrutturazione.
Ancora alle porte di Milano (capitale della ’ndrangheta, si deduce
dall’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia), il bar
Trevi di Buccinasco era l’«ufficio» dei Sergi, storica ’ndrina di
Platì: dopo lunghe polemiche vi traslocherà un’associazione
ambientalista. E la villetta bunker di Antonio Papalia, con la vasca da
bagno come una piscina, oggi è sede della Croce Rossa cittadina. La
Lombardia è la quarta regione, dopo Sicilia, Campania e Calabria, per
beni confiscati alle mafie (610 di cui 170 a Milano: due in più di
Reggio Calabria), seguita dai 102 del Piemonte, 72 in Veneto, 64 in
Emilia. E 26 nella piccola Liguria, dove da Ventimiglia a Sarzana clan
calabresi e siciliani ingrassano con la droga, la prostituzione, il
gioco illegale. Il sindaco di Genova Marta Vincenzi sente odore di
pizzo nel centro storico, e a Io donna dice: «Ho l’impressione che i
commercianti siano impauriti. Il mio è un invito a indagare». È da qui
che l’associazione “Libera” di don Ciotti, promotrice della legge 109
del ’96 per destinare a fini sociali gli immobili delle mafie, è
partita con una tournée di concerti da Nord a Sud: in due settimane, la
“carovana della legalità” guidata dai Modena City Ramblers (Onda
libera, l’ultimo album) ha fatto conoscere luoghi simbolo di come, per
colpire davvero le cosche, bisogna aggredire la loro roba. Il viaggio
culmina stasera a Cinisi, il paese siciliano di Peppino Impastato,
trucidato dalla mafia il 9 maggio di 31 anni fa.

E non è solo musica. «Libera» punta il dito contro gli anelli deboli della catena delle confische,
chiedendo un testo unico di legge e un’agenzia nazionale che
fluidifichi le fangose procedure: dopo la sentenza di confisca del
bene, la gestione passa al Demanio dello Stato (che solo nel 2005 ha
creato un database nazionale), fino all’assegnazione agli enti locali
affinché lo trasformino in uffici pubblici o lo affidino al non profit.
Un iter che si trascina per anni, perché il mafioso fa ricorso,
maschera con intestazioni fittizie, intralcia con ipoteche a catena,
mette in casa un disabile che la polizia non può cacciare (è accaduto a
Bardonecchia nella villa principesca di don Ciccio Mazzaferro). Poi
ride di gusto quando l’edificio cade a pezzi e per gli enti è un peso,
più che una risorsa. Così, degli 8.446 beni confiscati in Italia, solo
4.372 sono stati riutilizzati. Su 508 i Comuni stanno decidendo che
fare e altri 3.430 restano al Demanio. Fermi. «Di questi, la metà sono
ipotecati» spiega Antonio Maruccia, commissario straordinario del
governo per i beni confiscati, che da fine 2007 riordina il magma
burocratico e ha sbloccato mille immobili. A Milano, per esempio, il
Comune ha accettato di estinguere le ipoteche per 64 fra appartamenti,
box e bar, e a febbraio 46 sono stati consegnati alle associazioni.

Il Comune di Torino ha scelto di acquistare mezza carrozzeria in via Salgari:
l’altra metà era confiscata all’usuraio napoletano Ciro Peluso,
classico caso di sequestro pro quota che paralizza il bene. Ora l’ex
carrozzeria è un laboratorio multimediale gestito da ragazzi. Sono
giovani pure le tre coppie che abitano alla Cascina Caccia, centro
culturale, presto anche fattoria, sulle colline di San Sebastiano Po.
La confisca nel ’96, il passaggio al Comune undici anni dopo, la gente
del paese che raccoglie firme per non far “cacciare” l’anziano che ci
vive. È il padre dei fratelli Belfiore di Gioiosa Jonica: Sasà,
condannato per un sequestro d’eroina da 7 tonnellate (era il ’94,
l’avvio del processo Cartagine), e Mimmo, mandante dell’omicidio del
procuratore Bruno Caccia nell’83. «Erano benvoluti, regalavano pane e
formaggio di capra» sorride Francesca Rispoli di «Libera». «Il paese
preferiva loro all’idea iniziale di ospitare in cascina una comunità
per tossicodipendenti». Insomma, il vecchietto ha un’ordinanza di
sgombero ma nessun motivo per sloggiare. Finché la coraggiosa sindaco
chiede aiuto al prefetto. Ma papà Belfiore ha tutto il tempo di
comprarsi un’altra casa, poco distante. E di spaccare i pavimenti della
cascina, incendiare l’impianto elettrico, distruggere i tubi
dell’acqua. Se la roba è perduta, che sia almeno sfregiata.

*da ‘Corriere.it

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