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Processo al senatore D’Alì, in aula il 18 marzo

di Rino Giacalone il . Sicilia

La partita processuale si riapre. L’ex sottosegretario all’Interno, senatore Antonio D’Alì, da poco rientrato sotto l’ala “protettrice” del cavaliere Berlusconi, ha lasciato Alfano e l’Ncd per riapprodare dentro Forza Italia, tornerà da domanidavanti ai giudici con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di primo grado si è chiuso con una sentenza che ha avuto un taglio per così dire “andreottiano”: prescrizione per i fatti contestati sino al 1994, assoluzione per tutti i fatti successivi sino alla data del rinvio a giudizio (2011). I pm Tarondo e Guido hanno presentato appello , la stessa cosa ha fatto la Procura generale di Palermo con la firma del sostituto procuratore generale Anna Maria Leone. In aula a rappresentare la Procura generale ci sarà il sostituto procuratore generale Nico Gozzo.

A trattare il “caso” giudiziario saranno i giudici della IV sezione della Corte di Appello. Una sentenza quella pronunciata il 30 settembre 2013 dal gup Giovanni Francolini – il senatore D’Alì ha chiesto e ottenuto il giudizio col rito abbreviato dinanzi allo stesso giudice che doveva trattare la richiesta di rinvio a giudizio formalizzata dalla procura antimafia di Palermo – che comunque un dato pesante lo ha fatto registrare, cioè quello che fino alla data della sua elezione al Senato, la prima, nel 1994, D’Alì era a disposizione della famiglia mafiosa dei Messina Denaro. In questo ambito il reato commesso riguarda la vendita (fittizia) di un terreno al gioielliere (poi pentito) Francesco geraci. Una operazione fatta nell’interesse di Totò Riina e la famiglia Messina Denaro. Nei “motivi” di appello, i pubblici ministeri, Paolo Guido e Andrea Tarondo, hanno messo in evidenza quello che a loro avviso è stato un grave errore del giudice, ossia quello di “frammentare” le ipotesi di accusa. Sostanzialmente dalla lettura della sentenza emerge, ad avviso dei pm, una valutazione singola di ogni fatto di reato contestato all’imputato, quando invece non doveva essere così. Per i pubblici ministeri sia dalle dichiarazioni del collaborante Nino Birrittella, che faceva parte della cupola trapanese di Cosa nostra, sia dal contenuto delle intercettazioni nonché dall’esito di indagini, si coglie quello che il giudice ha detto di non aver visto, e cioè il fatto che determinate certezze nutrite dal capo mafia Francesco Pace, come quella sul trasferimento da Trapani del prefetto Fulvio Sodano (che era come il fumo negli occhi per i mafiosi), derivavano dalla certezza che Cosa nostra coltivava per via dei rapporti diretti con il senatore D’Alì. Altro episodio preso in esame quello delle elezioni regionali del 2001, quando la mafia di don Ciccio Pace decise di schierarsi con l’on. Bartolo Pellegrino e non del tutto con Giuseppe Maurici, candidato del senatore D’Alì. Anche questa circostanza per i pm non è da leggersi a favore dell’imputato. I pm scrivono:  la mafia trapanese in parte decise di appoggiare Pellegrino “per un tornaconto economico , un patto su vicende relative all’edilizia, alle costruzioni, che è emerso dal processo a carico dell’on. Pellegrino (uscito prescritto dall’accusa di corruzione dal suo processo)…la mafia non fa scelte politiche ma di convenienza…ed era conveniente sostenere Pellegrino come risulta dalla sentenza del processo in cui l’ex vice presidente della Regione fu imputato.  Nei motivi di appello i pm contestano anche la valutazione del giudice rispetto alle dichiarazioni rese dall’ex moglie del senatore, Maria Antonietta Aula.

“Non furono quelle dichiarazioni viziate da un personale risentimento. Ma la parte più consistente dell’appello è dedicata alla figura del teste Ninni Treppiedi, il sacerdote che sulla fase finale del dibattimento ha deciso di testimoniare dinanzi ai pm: il giudice non ha tenuto conto del rapporto stretto, confidenziale con l’imputato D’Alì tenuto dal teste Treppiedi… Stabile e continuativo – scrivono i pm – è stato il rapporto del senatore D’Alì con l’organizzazione mafiosa anche oltre il 1994 per come anche descritto dal sacerdote Treppiedi”. Rapporto che ha come inizio i primi anni ’90, dalla vendita fittizia di un terreno a soggetti notoriamente mafiosi. Nomi altisonanti Messina Denaro e Totò Riina. Episodio “che non è qualificabile – scrivono – come di piccolo cabotaggio ma semmai di grande rilevanza economica…una operazione messa in piedi da Matteo Messina Denaro all’epoca già latitante…una operazione di intestazione fittizia di un bene non per favorire un mafioso qualsiasi ma un mafioso dal nome altisonante, Totò Riina”. Fatto distinto da tutto il resto? Niente affatto: “Quello è un episodio che semmai illumina tutto il resto delle condotte del senatore D’Alì”.  A conclusione dei motivi di appello i pm Tarondo e Guido nonché la procura generale che ha sottoscritto un distinto appello ma analogo nei contenuti di quello presentato dai suoi colleghi, hanno chiesto ai giudici di sentire il collaboratore di giustizia Giovanni Ingrasciotta, il sacerdote Ninni Treppiedi,  il col. Rocco Lo pane dirigente della Dia di Trapani e Vincenzo Basiricò factotum del Treppiedi.

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