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Stragi, Spatuzza: “Non fu solo Cosa nostra”

di Norma Ferrara il . Sicilia

Nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza conferma:  Cosa nostra scelse una strategia terroristico – mafiosa che “non gli apparteneva”; Camorra e ‘ndrangheta sapevano///  “C’è una cosa in piedi” e se va a buon fine ci saranno benefici per noi e per i carcerati. Queste le parole con cui Giuseppe Graviano “madrenatura”, boss di Brancaccio avrebbe riferito in una riunione di mafia della “trattativa” in corso fra la mafia e pezzi di Stato. A raccontarla nell’aula bunker del carcere di Rebibbia a Roma il pentito Gaspare Spatuzza, soldato-killer di mafia, poi convertito grazie ad un percorso religioso e dal 2008 collaboratore di giustizia. Spatuzza ha ridefinito gli scenari delle stragi di mafia da via d’Amelio al mancato attentato all’Olimpico contro i carabinieri. I suoi racconti sono stati confermati da riscontri e sin ora non hanno trovato smentite. Anche ieri, nell’interrogatorio in trasferta dei pm del processo “sulla trattativa”  le parole di Spatuzza, sostanzialmente, confermano le deposizioni già rese nei verbali degli interrogatori e mettono in ordine fatti, circostanze, episodi, che dalla strage di via d’Amelio portano sino all’arresto dei suoi “riferimenti” dentro Cosa nostra, i fratelli Graviano, Filippo e Giuseppe.

L’incontro al Bar Doney e la “trattativa” vista dal “soldato” della mafia. “L’espressione di Graviano non fu trattativa – lui non usò questa parola. Mi ricordo che Graviano disse – abbiamo una cosa in piedi che se va in porto ci saranno benefici per noi e per i carcerati. Nel nostro linguaggio questo significa che si stava trattando  una situazione”. Così il collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, interrogato dal pm Antonino Di Matteo precisa i contorni della vicenda con la quale conferma, da soldato di mafia, di aver saputo alla fine del 1993 direttamente da Giuseppe Graviano dell’esistenza di una “trattativa” in corso “da cui sarebbero venuti benefici per i mafiosi”, soprattutto i carcerati. L’occasione fu una riunione di mafia  in cui e Spatuzza aveva sollevato perplessità circa i “morti che non ci appartengono” che ci “stavamo portando dietro” dopo gli attentati di Firenze, Roma e Milano e Graviano parla di questi “contatti” in corso per ottenere benefici. Spatuzza è “un soldato semplice” della famiglia di Brancaccio, “dipende” dal legame affettivo in particolare con uno dei due fratelli Graviano, Giuseppe, che lui descrive come “il braccio operativo” del mandamento mentre Filippo è “la mente diabolica” della “famiglia”. Una genesi, quella delle stragi, che vede dopo il marzo del 1992 un salto di qualità. Spiega Spatuzza: “Quando si decide di cambiare il piano per eliminare Falcone, di lasciare l’ipotesi di ucciderlo a Roma e di farlo a Capaci con l’esplosivo, li iniziamo ad usare un metodo terroristico – mafioso”. Anche per questo – commenta Spatuzza – dico che non era una cosa solo di Cosa nostra”. Spatuzza chiarisce altri tre punti che sono già state oggetto di diverse ricostruzioni investigative. Il primo riguarda l’esplosivo usato nelle stragi del ’92-’93. “Dalla strage di Capaci all’attentato all’Olimpico – precisa Spatuzza – il materiale che venne usato da noi fu sempre prelevato da Porticello”, dai fondali marini in cui giacciono residuati bellicci spesso usati per la pesca al frodo dai pescatori del luogo. Insieme all’esplosivo “macinato e preparato” dallo stesso Spatuzza in diverse occasioni “abbiamo aggiunto” una sostanza gelatonisa che serviva per dare “maggiore potenza” al detonatore e che per quel che ne so “arrivava da Messina o da Catania”. Il secondo riguarda la “logistica” degli attentati nel Continente. Secondo l’ex killer sarebbero stati decisi dal gruppo di Brancaccio: per Firenze “Graviano ci fece trovare dépliant e indicò il luogo in cui avremmo dovuto posizionare il fiorino carico di esplosivo”, per Roma “fummo noi, io e Lo Nigro, durante sopralluogo a scegliere i due obiettivi, l’incarico era di fare esplodere contemporaneamente queste bombe a Roma e a Milano nella stessa notte e di inviare delle buste di cui non vidi il contenuto”. Secondo Spatuzza non arrivò un comando preciso su “dove fare gli attentati – e aggiunge – io non ero mai uscito dalla Sicilia quindi ricordo che forse fu Lo Nigro ad indicare meglio i posti in cui potevamo realizzare questa cosa delle bombe. Non so se a lui fossero state date indicazioni”. Infine, l’attentato all’Olimpico: qui l’ordine di Graviano si intreccia con i racconti sulla “cosa in piedi” che avrebbe portato benefici. E comincia l’ultima fase della “trattativa” di cui il soldato-killer di Brancaccio viene messo al corrente con alcune frasi. Prima che tutto si chiuda con l’arresto dei Graviano e successivamente nel ’97 con l’arresto dello stesso Spatuzza. Rimangono sullo sfondo presenze esterne a Cosa nostra, come quella incrociata nel magazzino in cui portò la macchina per la strage di via d’Amelio “C’era una persona quando consegnai la 126 – spiega Spatuzza – che non era a mia conoscenza di Cosa Nostra, era troppo lontano da dove ero io non lo vidi bene, ricordo che non era un ragazzo, non era un vecchio”. E’ la “presenza esterna” già ribadita da Spatuzza in altri interrogatori e processi, su cui si continua a indagare. Interrogato dal pm Di Matteo Spatuzza chiarisce un altro aspetto fondamentale. Specifica, infatti, di aver appreso che “questa cosa delle bombe, non era solo una cosa di Cosa nostra” ma che anche le altre organizzazioni criminali  “come camorra e ‘ndrangheta”sapevano.  Una deduzione, cui Spatuzza arriva mettendo insieme una serie di episodi e di affermazioni fatte dai fratelli Graviano, alcune anche durante il successivo periodo di detenzione quando di fronte alle lamentele di boss di camorra e ‘ndrangheta per via del 41bis di cui i siciliani venivano considerati responsabili, si sentì rispondere da Filippo Graviano “digli di chiedere ai loro padri”.

L’ordine fu di “uccidere un bel po’ di carabinieri”. E’ all’incontro di Campofelice , in Sicilia, che i boss di Brancaccio pianificano il progetto di uccidere “un bel po’ di carabinieri”. Spatuzza racconta di aver esternato il suo malessere per i morti innocenti delle stragi “che ci stavamo portando dietro” e Giuseppe Graviano risponde: “E’ bene che ci portiamo dietro un po’ di morti così chi si deve muovere si dà una smossa”. Durante l’interrogatorio Spatuzza descrive poi l’incontro al bar Doney, in via Veneto a Roma nel gennaio del 1994 con Giuseppe Graviano, latitante, che visibilmente felice “come solitamente non era perchè non mostrava spesso le sue emozioni” gli disse “Che avevamo ottenuto tutto grazie alle persone …mi fa il nome di Berlusconi, il gli chiedo quello di Canale 5? e lui dice si e parla di un tramite, di un nostro compaesano, Dell’Utri, che io non lo conoscevo”. Nell’incontro però viene confermato il piano stragista contro i Carabinieri. “Fummo noi a scegliere l’Olimpico e un budello di una stradina in cui le camionette dei carabinieri dovevano per forza rallentare all’uscita dallo Stadio, dopo la partita” – spiega Spatuzza. Che descrive nel dettaglio la fase organizzativa dell’attentato e torna con la mente agli attimi concitati in cui, da una collinetta “forse era Monte Mario appresi dopo” i boss schiacciarono il telecomando che non azionò l’autobomba. “Per l’occasione Graviano ci aveva detto di rivolgerci a Salvatore Benigno, esperto di elettronica […] poi quel giorno provammo più volte ma l’attentato fallì”. Il gruppo di fuoco tenta di recuperare il veicolo che “era una bomba azionata pericolosa ma riuscimmo a recuperare l’esplosivo” poi tornano in Sicilia. Poco tempo vengono arrestati i fratelli Graviano. Avevamo esplosivo – racconta. Noi aspettavamo solo input da Matteo Messina Denaro o da Bagarella”. Ma l’input non arriva. Cessano le stragi, tutto si ferma “forse – aggiunge Spatuzza – perché avevamo chiuso tutto” …. “ il soggetto menzionato quel giorno al Bar Doney  lo vedo poi andare al Governo”. L’arresto dei fratelli Graviano avvenuto il 27 gennaio 1994 pochi giorni dopo il fallito attentato allo stadio “è un’anomalia. Lo stesso Giuseppe Graviano si è posto questo problema, da chi è stato venduto” afferma Spatuzza. Nel 1997 Spatuzza verrà arrestato “per fortuna, dice più volte in aula, sottolineando il suo percorso di conversione e di collaborazione che sarà complesso e lungo”. Nei primi anni, nonostante il regime di 41bis, Spatuzza riesce ad avere colloqui con i fratelli Graviano. In aula ne cita uno, significativo per il collaboratore di giustizia, nel racconto di questa “trattativa” fra Stato e mafia. Siamo nel 2004 nel carcere di Tolmezzo e Spatuzza, incontra Filippo Graviano, provato da problemi di salute e da un infarto il boss di Brancaccio gli confida “E’ bene far sapere a Giuseppe (Graviano, ndr) che, se non arriva niente, da dove deve arrivare, è bene che anche noi iniziamo a parlare con i magistrati”. Alla domanda del pm: Da dove deve arrivare? Che cosa deve arrivare? Spatuzza risponde “Lui non me lo disse ma penso a quanto detto dal fratello Giuseppe al bar Doney, e mi collego a Campofelice …C’è in piedi una situazione che sa va buon fine avremo dei benefici per i detenuti…”.

Oggi il contro esame degli avvocati della difesa su Spatuzza concluderà queste udienze “romane” del processo contro la  mafia e alcuni uomini dello Stato. A vent’anni dalla “trattativa”.

 

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