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Contro le mafie un vangelo di liberazione

di Giacomo D’Alessandro il . Calabria

“Nella mia vita mi porto dietro due icone. La prima: mio padre con la famosa valigia con lo spago – io bambino di tre anni – che parte per Torino, e ritorna una volta al mese per anni. Era la prima migrazione,esattamente quello che avviene oggi per i migranti africani. L’altra icona: i morti ammazzati per le strade di Cittanova, paese in cui sono nato, dove si è consumata una faida cruenta. Più crescevo più capivo che entrambe queste immagini mi riconducevano a una realtà, la realtà della violenza organizzata, della ‘ndrangheta, di un sistema di potere che permetteva, anzi voleva che ci fossero quei morti ammazzati e che mio padre emigrasse”. Così Don Pino De Masi, parroco impegnato da anni in Calabria, racconta il suo primo incontro con la ‘ndrangheta. Libera, il Vangelo di Liberazione, Papa Francesco e la speranza di cambiamento: tutto nell’intervista a seguire.

 

Quando e’ maturata la tua vocazione?

Nel tempo ho preso coscienza insieme a un gruppo di amici che quella situazione era insostenibile ma che non ci potevamo permettere il lusso di andarcene. Abbiamo maturato l’idea di andare a studiare altrove, per poi tornare: la Calabria aveva bisogno di tutto ma specialmente dei calabresi. Sono cresciuto all’ombra del campanile e ho maturato una vocazione al sacerdozio durante gli anni della mia adolescenza. Dopo la maturità classica sono stato tentato, come ogni buon sessantottino, di varcare le soglie di Sociologia a Trento. Invece sono andato a Posillipo a fare teologia e poi sono tornato.

 

Qual è stato l’impatto con la realtà? Come hai deciso che tipo di prete essere?

Era un momento critico per la piana di Gioia Tauro: dopo i moti di Reggio l’assetto istituzionale ma anchequello mafioso si era completamente modificato. Con i sequestri di persona la ‘ndrangheta si era arricchita ed era passata all’attività di movimento terra al porto di Gioia Tauro, che le permise di accumulare ricchezza da investire poi in droga. L’educazione e la formazione che ho avuto mi avevano reso chiaro già da tempo che le mafie erano un peccato sociale, una realtà da combattere, e che tra Vangelo e mafia non si poteva andare d’accordo. Oggi questo è scontato, ci sono i documenti che parlano chiaro e gli interventi dei sommi pontefici, ma negli anni Settanta non lo era per nulla. Mi sono detto che dovevo essere Chiesa in questo territorio e annunciare un vangelo di liberazione. Per cui ho cercato di educarmi, di educare i giovani ad essere – come diceva don Bosco – buoni cristiani e onesti cittadini.

 

Cos’ha significato lavorare per il cambiamento?

Noi diciamo “cambiare per restare, restare per cambiare”: cambiamo noi, lasciamo da parte la mentalità mafiosa e restiamo in questo territorio, ma come fermento. Durante gli anni dell’università a Napoli avevo incontrato i Gesuiti, ma i Gesuiti di Pedro Arrupe, che mi hanno permesso di andare nei quartieri, nelle carceri minorili e a Poggioreale, esperienze forti di volontariato che ho cercato di trasmettere ai giovani quiin Calabria. Questo lavoro fondato su Vangelo e Costituzione mi ha permesso di incrociare persone come Luigi Ciotti, Beppe Lumia, Guglielmo Minervini, cioè figure impegnate nel sociale che sono venute qui in parrocchia e ci hanno aiutato a intraprendere una strada di impegno preciso.

 

Poi è iniziata l’avventura di Libera…

Libera è nata come rete il 25 marzo 1995, e la nostra associazione parrocchiale Il Samaritano è stata una delle prime ad aderire, forte dello slogan “il sogno si fa segno”: il sogno di una Calabria diversa, normale,doveva diventare segno concreto giorno dopo giorno. A partire dalla legge voluta da Libera sull’uso sociale dei beni confiscati abbiamo deciso che era venuto il momento di sporcarci le mani: nel 2004 nasce la Valle del Marro, prima cooperativa calabrese a lavorare sui terreni confiscati alle mafie.

 

Una scommessa riuscita?

A distanza di dieci anni possiamo dire di sì: la prima scommessa è stata fare cooperativa, in una terra dal forte individualismo che non ha alle spalle una cultura solidaristica e cooperativistica; la seconda scommessa è l’essere riusciti ad andare a lavorare sui terreni confiscati. Non era facile. Qui quando si parla di ‘ndrangheta non si parla di gente di secondo ordine, si parla dei Piromalli, degli Alvaro, dei Mammoliti, cioè la ‘ndrangheta storica che oggi ha in mano le economie internazionali. E allora andare a calpestare quei terreni era una lotta tra Davide e Golia, ma l’ha vinta Davide. L’hanno vinta i ragazzi nonostante i tanti attentati che hanno subito. Hanno dimostrato che anche in una terra come questa, dove alle mafie interessa solo fare ricchezza per pochi, invece si può fare azienda seria, si può produrre sviluppo. Ma la scommessa più bella è stata cambiare l’aria culturale del territorio, perché affianco alla cooperativa anche la Chiesa si è mossa: la diocesi sta costruendo la prima chiesa su terreno confiscato e ha chiesto un altro palazzo per gli uffici laicali; la mia parrocchia ha ottenuto l’assegnazione di un palazzo dove stiamo realizzando un progetto molto ambizioso… E allora di fronte a questi segni la gente ha ritrovato il proprio coraggio e la propria voglia di vivere, ha capito che in questo territorio si può nuovamente vivere, con dignità, a testa alta e con la schiena dritta.

 

A Polistena, questo paesino vicino a Rosarno, ogni estate arrivano 400 giovani da tutta Italia per i campi della legalità…

E’ il segno del cambiamento possibile, un laboratorio che va esportato. I ragazzi di Estate Liberi! arrivano con le loro riserve, pensando magari di trovare tutto negativo, e al ritorno nelle città d’origine cercano di impegnarsi a lavorare anche lì per il cambiamento. Tanti scoprono per esempio che le mafie sono presenti sul loro territorio, capiscono che la resistenza che hanno trovato qui nei nostri ragazzi devono imitarla e realizzarla anche loro.

 

Come funziona un campo di Libera?

I campi della legalità sono campi di volontariato, di impegno, formazione e informazione. Normalmente si arriva il lunedì sera, c’è un momento di accoglienza e festa preparato a turno da un gruppo della parrocchia. Le mattine sono impegnate in lavori manuali presso i terreni confiscati: è molto importante questo gesto, mettere le mani nelle zolle di terra, toccare di persona quei terreni. Al pomeriggio fanno formazione e informazione: incontrano testimoni antimafia, famigliari di vittime di mafia, organizzano presentazioni di libri con gli autori e gli esperti. Il venerdì sera si cerca di fare contaminazione con qualcherealtà giovanile locale. Il sabato e la domenica si gira visitando quella filiera positiva che è presente sul nostro territorio e che ci permette anche di fare un turismo sociale; il polo della legalità,il commercio equo e solidale, l’artigianato locale…La domenica è dedicata al mare.

 

La Chiesa in generale fa molta fatica a incontrare i giovani. Cosa emerge da questa esperienza?

Forse qui a differenza di altre zone del paese nonostante tutte le pecche la Chiesa sta facendo uno sforzo non indifferente per essere fermento di cambiamento nel territorio. I ragazzi la prima cosa che notano è proprio questa presenza. Fondamentale è l’educazione delle coscienze, perché la mafiosità dei comportamenti èanche peggiore della mafia intesa come associazione a delinquere, anzi è l’humus attraverso il quale le mafiepossono proliferare. Per cui il lavoro che noi facciamo come Chiesa è proprio di aiutare i giovani a lasciarsialle spalle la mentalità della delega, della rassegnazione, del disimpegno e incominciare a impegnarsi in prima persona, con opportunità di volontariato e di conoscenza dei disagi sociali, insieme a percorsi specifici di legalità. E’ la pedagogia dei fatti. Io fotografo la mia realtà, la giudico alla luce del Vangelo e agisco.

 

L’avvento di Papa Francesco cambia qualcosa?

Mi dà speranza ma soprattutto mi fortifica nel mio impegno, mi sento meno solo di prima. Mi dà la forza di essere più deciso e decisivo.

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