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Reportage. Catania, mafia sulla festa di Sant’Agata

di Renato Camarda* il . Sicilia

Dopo due morti e due processi, dopo 5 anni di tentativi di instaurare un dialogo con le autorità e con la città, il Comitato per la legalità nella festa di S.Agata (Addiopizzo Catania, varie Associazioni antiracket, Banca Etica per la Sicilia Orientale, Cittàinsieme, Coordinamento catanese di Libera, COPE, Fondazione Giuseppe Fava, Mani Tese Sicilia, MOVI, Pax Christi) quest’anno ha motivo di sperare che forse qualcosa può cambiare nella festa di S.Agata.  La festa è un evento che si ripete da quasi un migliaio di anni, e che oggi, nei tre giorni delle celebrazioni, vede la partecipazione di almeno sei o settecentomila persone il 3, 4 e 5 febbraio.

Sono giorni attraversati da grande fervore religioso, da intense manifestazioni di affetto nei confronti della santa e da tre giorni di processioni pieni di fasto e di colore.  Ma sono anche giorni in cui decine di migliaia di venditori ambulanti abusivi invadono le vie della città, vendendo di tutto, spesso anche carne di cavallo arrostita direttamente sul posto. In effetti, si ha l’impressione che più che di una festa religiosa, si tratti di una grande fiera all’aperto, l’occasione per fare rapidi guadagni senza alcun controllo reale.  Si è sempre parlato di infiltrazioni mafiose nelle celebrazioni, ma da sempre a Catania esiste un tabù culturale intorno alla festa di S.Agata. Criticare la festa vuol dire criticare la santa. Politici di ogni colore, amministratori, forze dell’ordine, la stessa chiesa hanno sempre avuto un atteggiamento prudente nei confronti delle contraddizioni della festa, per paura di mettersi contro il popolo di Catania sud, quello delle periferie degradate, presente massicciamente nella festa. I potenti della città hanno spesso usato la festa come passerella o veicolo di potere.

La sinistra più militante, d’altra parte, si è sempre limitata a subire la festa, a considerarla al più come un interessante caso antropologico. Tranne una volta, in verità, quando nell’89 l’assessore alla trasparenza Franco Cazzola, uomo di sinistra, chiese all’allora arcivescovo Bommarito di rifiutare i soldi della mafia per la festa, per sentirsi rispondere che non c’era modo di sapere quali fossero i soldi i della mafia.  Insomma, tutti sapevano delle scommesse, dei venditori ambulanti abusivi, dei fuochi non autorizzati di fronte alle case dei mafiosi, sapevano della capacità dei clan, che per quei giorni imponevano una specie di pax mafiosa, con uno stop agli omicidi e a gravi episodi criminali.

Ecco, tutta questa struttura comincia a vacillare con la morte del giovane Roberto Calì, quando la sera del 5 febbraio 2005, viene calpestato a morte sulla salita di San Giuliano dagli altri fedeli, dopo essere caduto davanti al fercolo. La morte del giovane doveva passare come una tragica fatalità, ma due magistrati, Antonino Fanara e Pasquale Pacifico, la pensano diversamente, e incriminano l’allora sindaco Umberto Scapagnini, l’arcivescovo Salvatore Gristina, il cerimoniere comm. Luigi Maina, un poliziotto, un paio d’impiegati del Comune e il capovara, Alfio Rao. Alla fine, però, la procura decide che è difficile provare la responsabilità di tutti questi personaggi, ed è costretta a concentrarsi solo su Rao, che verrà condannato in prima istanza nel 2011 per omicidio colposo. Nella requisitoria dei magistrati si leggono però parole rivelatrici sulla disorganizzazione della festa, sulla non chiara distribuzione delle responsabilità, e soprattutto sulla mancanza di un regolamento.

E’ in questa confusione che va cercata la causa prima della morte del giovane Calì.  Leggendo questa requisitoria, alcuni cronisti del giornale Catania Possibile e alcuni attivisti del volontariato cittadino si rendono conto del valore esplosivo delle parole dei magistrati. Nasce così il Comitato per la legalità nella festa, composto da due anime che si complementano: quella del cattolicesimo democratico e quella dell’antimafia. Richiesta principale: un Regolamento per la festa che stabilisca tempi, modi e responsabilità delle celebrazioni. Si sa, infatti, che ogni anno i tempi della festa si allungano, riuscendo ad occupare anche mezza giornata del 6 febbraio, in ossequio probabile agli interessi dei venditori abusivi, ai quali conviene il dilatarsi dei tempi, ed in risposta anche alle scommesse sui tempi della festa.

Intanto, ecco che nel 2009 inizia il processo per le infiltrazioni mafiose nel Circolo cittadino di S.Agata alla Collegiata, un Circolo che tradizionalmente controllava parti importanti della festa e decideva chi dovesse occupare le posizioni di prestigio all’interno di essa. Così vengono fuori foto che mostrano famosi capi clan che portano le sacre reliquie di S.Agata. Non solo: i primi tesserati del circolo sono tutti capiclan della famiglia Santapaola-Ercolano-Mangion. E qui emerge in particolare la responsabilità della chiesa catanese dell’epoca, presente nel Circolo della Collegiata con un sacerdote responsabile religioso. Il Comitato si mobilita con successo per chiedere che il Comune si costituisca parte civile, ed inizia una campagna di diffusione di documenti, foto e testimonianze che provano al di là di ogni dubbio la presenza della mafia, e in particolare dei clan Cappello e Santapaola, nella festa. E non si tratta solo del Circolo di Sant’Agata: secondo diversi pentiti, alcune candelore (enormi torri di legno scolpite che mostrano momenti della vita della santa che girano portate a spalla per la città prima e durante la festa raccogliendo donazioni) sono direttamente gestite dai clan e, con le notevoli donazioni ricevute, vengono acquistate armi e cocaina.

* Membro del direttivo di Libera Catania e portavoce del Comitato per la legalità nella festa di S.Agata

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