Los Angeles: coprifuoco, retate di migranti, soldati e autoritarismi
Il divieto di circolazione dalle 20 alle 6, secondo la sindaca Karen Bass, rimarrà in vigore per «alcuni giorni» di modo da porre fine ai confronti fra manifestanti e polizia con scontri e tafferugli. E rendere sproporzionato l’intervento di agenti federali e soldati decisi da Trump.
La città degli angeli vista dal Diavolo
L’amministrazione Trump insiste nella risibile descrizione di una città dilaniata da orde invaditrici e «provocatori pagati». Martedì sera però, l’ultimo assembramento prima del coprifuoco è stata una pacifica processione guidata dalla stessa sindaca con sacerdoti, rabbini, pastori e leader religiosi ecumenici fino al centro di detenzione dove si trova un numero non precisato delle 300 circa persone rimosse da posti di lavoro, abitazioni, scuole o specialmente per strada nei rastrellamenti Ice (Immigration and customs enforcement, come ci precisa Luca Celada sul manifesto). «La manifestazione, con candele e cori gospel, ha rimandato alle atmosfere delle proteste peri i diritti civili degli anni Sessanta».
Donald Trump da Forte Brag
Donald Trump in un discorso alle truppe di Fort Bragg. «Questa anarchia non verrà tollerata», ha tuonato il presidente nella base militare del North Carolina. «Non permetteremo che gli agenti federali vengano aggrediti e non lasceremo che una città americana sia invasa da un nemico straniero. Libereremo Los Angeles». Truppe scelte (nel senso di essere state selezionate per apparenza atletica e inclinazione politica) un assaggio della ‘parata di compleanno’ auto organizzata per sabato a Washington.
Da «dittatore fallito», come ha ironizzato il governatore della California Gavin Newsom. «Ciò che sta accadendo a Los Angeles, ha proseguito ci riguarda tutti. La California sarà forse la prima della lista, ma è chiaro che non finirà qui. Dopo toccherà ad altri stati. Toccherà alla democrazia. La democrazia è sotto attacco sotto ai nostri occhi».
‘Squadre tattiche’ di repressione
La Nbc ieri ha riferito che il governo starebbe preparando ‘squadre tattiche’ da dislocare a Seattle, Chicago, Philadelphia, Virginia e New York. Il governatore trumpista del Texas, Greg Abbott, ha mobilitato anche lui la guardia nazionale a San Antonio, la più ispanica delle città di quello stato con il 63% della popolazione di origini messicane. La bandiera di quel paese -simbolo delle proteste anti-deportazione- è sventolata in un numero sempre maggiore di manifestazioni in diverse città comprese Santa Ana, Long Beach, Dallas, Houston, San Francisco e New York, delineando una crisi che promette sempre più di mettere alla prova lo stesso modello federalista.
Alla radice della crisi il livello di violenza nella retorica sovranista e xenofoba Maga, inscenando a Los Angeles che la sindaca ha definito «un involontario esperimento». Il diritto rivendicato da Tom Homan, prefetto speciale per le deportazioni, di «prelevare e rimuovere chiunque, dovunque, ogni giorno per i prossimi tre anni e mezzo».
Retate volutamente violente
Le retate – denuncia il governatore Newsom – vanno ben oltre il «dichiarato intento di perseguire solo criminali violenti: agenti stanno arrestando lavapiatti, giardinieri, braccianti e sarte». Da ieri si sono segnalate anche retate di braccianti nelle zone agricole della Central Valley.
La misura dell’atmosfera che regna in città l’ha data il comunicato con cui il soprintendente delle scuole Antonio Carvalho ha annunciato che le cerimonie dei diplomi verranno protette da eventuali raid dell’Ice da un «perimetro difensivo» degli agenti del distretto. Conflitto fra giurisdizioni locali e federali. E una colossale spesa (solo il costo delle truppe mobilitate su Los Angeles ammonterebbe a 134 milioni di dollari) e relativo incremento delle infrastrutture.
La mega finanziaria presentata da Trump al Congresso contiene ad esempio stanziamenti di 45 miliardi di dollari per ingigantire il gulag preposto alla detenzione temporanea di deportati mentre per l’assunzione di migliaia di nuovi agenti si prevedono 75 miliardi di dollari.
La Casa Bianca ieri ha smentito i piani per una espansione del capo di prigionia di Guantanamo («solo fake news») ma Politico e Washington Post riportano di aver ottenuto documenti che lo confermano, compreso il trasferimento di cittadini di paesi alleati come Inghilterra, Francia e Italia.
Dal migrante «nemico», allo stato autoritario
«La guerra di Trump non riconosce come parte della società americana la popolazione immigrata contro cui muove», denuncia Marco Bascetta. «No justice no peace» fu il grido che attraversò la rivolta di Los Angeles del 1992.
Allora l’accumulo di tensione prodotto dalla discriminazione razziale negli Stati uniti e l’enorme risentimento per le continue ingiustizie subite dalla popolazione nera delle sue fasce più povere. Allora fu una sentenza di assoluzione della violenza arbitraria esercitata dalla polizia contro un nero a fare da detonatore. Una storia che si sarebbe ripetuta numerose volte in termini analoghi sebbene su scala minore.
Quella delle ribellioni contro la persecuzione discriminatoria della comunità nera, di una componente riconosciuta ma storicamente subalterna della società americana. Una storia che combinava questione razziale e conflitto di classe.
Oggi ancora peggio
Quel che accade oggi è di forse assai più grave. La guerra di Trump non riconosce come parte della società americana la popolazione immigrata contro cui muove. Non si tratta di tenerla al suo posto, come nel caso degli afroamericani, ma di espellerla e deportarla, sbaragliando al tempo stesso la cultura politica che non solo riconosce il contributo delle migrazioni antiche e recenti alla specifica natura del paese e alla sua ricchezza, ma che intende valorizzarlo.
E non c’è teatro migliore della California, e di Los Angeles in particolare, per mettere in scena questo spettacolo di guerra contro famiglie e lavoratori precipitati nel ruolo di nemici interni.
Isolazionismo trumpista
Il cosiddetto ‘isolazionismo’ dell’attuale amministrazione americana, se da un lato esibisce il disimpegno militare dai più lontani fronti del pianeta, dall’altro procede alla dichiarazione di un conflitto interno contro i migranti e tutti quelli che vengono ritenuti un ostacolo al ripristino della grandezza americana.
«È una sorta di nazionalizzazione della guerra che aspira a correggere o trasformare il sistema con la pretesa di ricondurlo ‘iuxta propria principia’, di restaurare la sua perduta ‘autenticità’, che corrisponde poi alla supremazia bianca e anglosassone», esplicita Bascetta.
Rischio reale di guerra civile
In questa chiave l’invio presidenziale dei marines a Los Angeles, si avvicina molto al colpo di partenza di una guerra civile contro realtà e soggettività profondamente radicate nella società americana e nella sua coscienza. «Ed è dall’irruzione dei seguaci di Trump a Capitol Hill che le ombre della guerra civile aleggiano nel cielo americano. Fino ad ora le opposizioni hanno faticato a riorganizzarsi e digerire il colpo subito: le reazioni sono rimaste circoscritte al terreno giudiziario. Tuttavia, quando la resistenza si farà più decisa, più estesa, più combattiva, non è affatto escluso che lo scenario della guerra civile si dispieghi più chiaramente e la relazione politica assuma la forma prevalente della violenza».
Trump non il primo né l’unico
Il nuovo governo tedesco, in rotta con il diritto europeo, affida la sua popolarità ai respingimenti e alla progressiva demolizione del diritto di asilo. Se i migranti già residenti in Germania, pur minacciati dalle aggressioni neonaziste, non rischiano la deportazione è perché centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza contro il progetto di ‘remigrazione’ messo a punto dall’estrema destra. Un movimento che ha reso impossibile, per ora, la collaborazione tra l’Afd e il centro democristiano, ma non la politica sempre più ostile e persecutoria nei confronti dei migranti, adottata dal cancelliere Merz.
Nella maggior parte dei casi respingimenti ed espulsioni poggiano su una relazione strumentalmente ingigantita tra immigrazione e criminalità, non senza una certa presa su paure e pregiudizi popolari.
Il nuovo fascismo
«Questo determina però una estensione degli apparati di controllo e una progressiva contrazione dei diritti e delle libertà individuali. Alla fine una accentuazione dei caratteri autoritari dello stato. La criminalizzazione della diversità che ai migranti si applica su larga scala, transita rapidamente verso altre categorie ‘trasgressive’, emarginate, subalterne o ribelli. L’aggressione parte dall’alto e da destra, come mostra l’azione di Trump. Per fermarla servirà un’azione priva di remore. In fondo è con un nuovo fascismo che abbiamo a che fare».
Fonte: Remocontro
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