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Milano. Giustizia riparativa, il valore del rapporto tra vittime e autori di reato

Silvia Donnini * il . Carceri, Costituzione, Criminalità, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Lombardia

Le carceri italiane affrontano oggi una fase complessa, tra sovraffollamenti e allarmante aumento dei suicidi da parte dei detenuti. Negli istituti penitenziari, però, nascono anche progetti positivi, come il Gruppo della Trasgressione che, instaurando un dialogo tra detenuti e familiari delle vittime, favorisce il processo di riparazione.

Ne hanno parlato a Live In Milano 2025 Angelo Juri Aparo, psicoterapeuta, Paolo Setti Carraro, familiare di vittima di mafia, e Francesco Cajani, pubblico ministero. Le carceri in Italia affrontano oggi una fase molto complessa. Al grande problema del sovraffollamento, si aggiungono le condizioni degradanti nelle celle e, soprattutto, l’allarmante aumento dei suicidi da parte dei detenuti. All’interno degli istituti penitenziari, però, prendono forma anche progetti positivi, capaci di donare speranza favorendo il processo di riparazione e il reinserimento sociale.

È il caso del Gruppo della Trasgressione che, nato 28 anni fa, ha l’obiettivo di far sì che “il detenuto, invece che parlare con lo psicologo in un colloquio finalizzato alla sua uscita, parli con altri detenuti della sua storia, di quello che sente, di quello che vive”, ha spiegato a Live In Milano 2025 Angelo Juri Aparo, psicoterapeuta e fondatore del Gruppo stesso. Oltre ad Aparo, a prendere parte all’evento di Sky Tg24, in particolare al panel “Giustizia riparativa”, sono stati Paolo Setti Carraro, medico e familiare di una vittima di mafia che da anni frequenta il Gruppo, e Francesco Cajani, pubblico ministero a Milano e membro del comitato scientifico de Lo Strappo – Quattro chiacchiere sul crimine.

Ad accompagnare l’incontro anche Andrea Spinelli, il primo illustratore giudiziario italiano che, con il suo tratto grafico, ha rappresentato molti dei più importanti processi negli ultimi anni a Milano.

Il Gruppo della Trasgressione

Fondato dallo psicoterapeuta Angelo Juri Aparo, il Gruppo della Trasgressione è nato “dopo diciotto anni che facevo lo psicologo del Ministero della Giustizia in carcere a San Vittore”, ha raccontato a Live In Milano 2025. “È nato fondamentalmente perché i detenuti che parlavano con me parlavano chiaramente e comprensibilmente con lo scopo di ottenere da me una relazione che, mescolata con altre relazioni, doveva essere utile alla concessione del permesso della misura alternativa. Il detenuto che parlava con me parlava con uno scopo, che era quello di essere riconosciuto compatibile con la misura alternativa. Ma questo mi impediva di capire, di sentire quello che era effettivamente la vita del detenuto”, ha spiegato Aparo. Quindi il Gruppo della trasgressione è nato “per fare in modo che il detenuto parlasse con altri detenuti della sua storia, di quello che sente, di quello che vive. E in effetti, dialogando con gli altri detenuti, veniva fuori più facilmente quello che la persona sente, i suoi fallimenti, le sue speranze, i suoi conflitti”.

Negli anni il Gruppo si è allargato, aprendosi a studenti, cittadini e familiari delle vittime. È il caso di Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela Setti Carraro che morì nella strage di via Carini a Palermo del 3 settembre del 1982, insieme al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la scorta. “La sintesi della mia vita, delle mie esperienze di vita è che, quando un dramma di queste dimensioni colpisce una famiglia, colpisce gli elementi della famiglia in maniera molto diversa, perché siamo persone diverse. Quello che è successo a me è che, rispetto a mia madre e mio padre che avevano una visione e avrebbero voluto quasi santificare Emanuela, io ne apprezzavo di più gli aspetti umani, le fragilità, i dubbi, gli errori”, ha raccontato a Live In.

“Questo mi ha portato a una separazione rispetto alla famiglia e a un accantonamento della elaborazione del lutto che è durato tantissimo, è durato più di 30 anni. Quando i miei sono scomparsi, quando io ho finito una parte estremamente impegnativa della mia vita come chirurgo, ho sentito il bisogno di fare una scelta di vita. E a questo punto ho cominciato, insieme con una decina di altri familiari, un percorso con psicologi e mediatori penali per elaborare”, ha spiegato Setti Carraro. Durante il percorso, “ognuno ha avuto l’opportunità di raccontarsi e siamo arrivati a un punto in cui abbiamo sentito l’esigenza di fare un salto, di andare dall’altra parte – ognuno con il suo carico di dolore – a incontrare gli altri, a incontrare persone detenute con il loro carico di dolore, frutto dei loro errori, frutto della detenzione. E siamo partiti da poli molto lontani”, ha detto commosso.

“Il percorso è stato quello di cercare di incontrarsi, di avvicinarsi a metà strada: persone con pari dignità umana. Non abbiamo mai chiesto a nessuno l’articolo, il crimine, abbiamo visto soltanto persone desiderose di rileggere la loro esperienza e di emanciparsi, di rileggere la loro vita, non come giustificazione ma come processo di presa di coscienza, di responsabilizzazione rispetto ai loro passati”.

La giustizia riparativa

Durante il panel si è parlato anche di giustizia riparativa e dei progetti per avvicinare gli studenti al mondo carcerario.

“Anche prima di diventare magistrato ho sempre pensato che il carcere dovesse essere utile anche per chi sta fuori, non solo per chi recluso sta dentro”, ha detto Francesco Cajani intervenendo nel corso del panel. “Se il carcere è un pezzo di società civile, è un’istituzione che deve essere utile. Mi veniva naturale accompagnare dei ragazzi in carcere, anche perché il carcere della nostra città sta in centro”, ha aggiunto.

Il magistrato ha poi raccontato la sua esperienza a contatto con il Gruppo della Trasgressione. “Ormai più di 20 anni fa ho conosciuto, portando dei giovani 18-19 anni in carcere, il Gruppo della trasgressione. Lì è iniziato quell’incontro. Noi abbiamo cercato di fare quell’esperimento: i ragazzi entravano e a un certo punto – per citare Don Tonino Bello – non vedevano il mostro, vedevano il nostro, cioè quella carne, quella parte del tessuto sociale. Ogni tanto ricordo quel patto che ho fatto con Yuri che ho definito il ‘patto dei macellai’. Da una parte io portavo della carne fresca, giovane e lui sul banco del Gruppo della Trasgressione aveva la carne meno giovane, ma sempre disposta a farsi tagliare a pezzetti. Questo è il lavoro del gruppo”, ha spiegato Cajani.

L’incontro tra studente e detenuto “assume una funzione, un ruolo”, ha detto il magistrato. “Dopo due o tre anni qualche detenuto ha chiesto il primo permesso, non per riuscire ad andare dalle loro famiglie, ma per andare nelle scuole. In classe i detenuti hanno fatto molto di più in tre ore di tutto quello che il corpo docenti aveva fatto in tre anni. Poi c’è stato il viaggio che ci hanno proposto i familiari delle vittime, che a loro volta cercano lo sguardo dell’altro in un’ottica della giustizia riparativa”, ha aggiunto Cajani.

La storia di Vincenzo, membro del Gruppo della Trasgressione

Durante il panel è stata trasmessa anche l’intervista a Vincenzo, detenuto nel carcere di Opera che da 14 anni partecipa al Gruppo della Trasgressione.

“Per me questi incontri rappresentano una crescita evolutiva del pensiero della persona e del detenuto stesso, che serve per ricucire quello ‘strappo’ che ogni detenuto avrebbe rotto, il patto sociale con la società”, ha raccontato Vincenzo. Che valore ha quindi l’incontro tra un detenuto e una persona che ha subito il reato? “Quando le persone vengono a conoscere ‘chi ha fatto il danno’ è proprio perché è il dolore che accomuna entrambi, sia il carnefice che la vittima. Senza di questo vivrebbero male sia l’uno che l’altro. È ovvio che per chi ha subito reato il dolore è molto più grave, però aiuta a far riflettere chi ha commesso reato affinché non lo commetta più”, ha precisato il detenuto aggiungendo che “chi ha subito il reato vuole far capire al detenuto che c’è qualcosa che si può salvare sempre, anche in chi commette il reato”.

Il Gruppo della Trasgressione “serve a far capire che bisogna scegliere l’opposto di quello che si è scelto quando si è arrivati in galera, è ovvio. Si può scegliere se si vuole”, ha concluso Vincenzo.

Si può scegliere, se si vuole? Commentando le parole di Vincenzo sulla possibilità di scegliere, Aparo ha sottolineato che “si può scegliere tra quello che gli occhi sono in grado di vedere e la mente è in grado di pensare. Diversamente, come si fa a scegliere quello di cui non si ha idea?”.

Poi ha precisato: “Questo è un tema centrale. Tutte le persone o quasi tutte le persone che finiscono in carcere ci arrivano dopo una vita vissuta secondo uno stile deviante, e lo stile deviante in verità non viene scelto. Ciò che si sceglie, lo si sceglie all’interno di un’atmosfera mentale che la persona però non sceglie di avere. Questo è il concetto. Noi scegliamo questo o quello, ma non scegliamo l’atmosfera mentale, le emozioni che proviamo. Le emozioni che proviamo nella nostra mente vengono su dall’amore che riceviamo, dalle condizioni che viviamo”.

In questo senso, il Gruppo della Trasgressione “aiuta a scegliere, perché progressivamente allarga gli orizzonti della mente e delle emozioni: più sono ampi questi orizzonti, maggiore sarà la gamma delle scelte possibili”, ha rimarcato lo psicoterapeuta.

Il contributo dei familiari delle vittime

Nella sua intervista Vincenzo ha detto: “Il dolore accomuna entrambi, sia il carnefice che la vittima. È ovvio che per chi ha subito reato il dolore è molto più grave, però aiuta a far riflettere chi ha commesso reato affinché non lo commetta più”.

Qual è quindi il contributo che i familiari delle vittime possono offrire al cambiamento e alla società? Secondo Paolo Setti Carraro, “il cambiamento, l’evoluzione, l’emancipazione è reciproca”. L’incontro con i detenuti è “un processo che innesca delle reazioni, che innesca dei pensieri, delle riflessioni, delle emozioni e la crescita è reciproca. Entrare in carcere significa essere riusciti finalmente a lasciare andare il rancore, essere testimoni di un cambiamento possibile per i familiari delle vittime. Significa anche guardare alla possibilità di restituire alla società dei cittadini”, spiega Carraro.

“Noi non abbiamo obiettivi, non abbiamo lezioni da insegnare, non abbiamo principi da far sposare. Funzioniamo come una via di mezzo tra il lievito e il catalizzatore. Siamo in grado di interagire con delle persone, veniamo riconosciuti come vittime. Il riconoscimento è importante”.

Il dialogo tra familiari delle vittime e detenuti è quindi “un confronto tra persone di pari dignità: persone, non individui. La persona, al di là dell’individuo biologico, è dotata di emozioni e di pensiero. Lo scambio di emozioni e di pensieri arricchisce tutti”.

Poi conclude: “Ogni giorno, all’uscita dal carcere, siamo tutti più ricchi. Chi rimane all’interno del carcere ha occasioni, desideri o voglia di riflettere, di pensieri, di confrontarsi e di arricchirsi. Questo credo che sia il senso principale della presenza di familiari delle vittime all’interno del carcere, perché la nostra sicurezza dipenda dalla qualità delle persone che escono dal carcere e non dal numero delle carceri o dagli spazi all’interno del carcere”.

La giustizia tradizione e la giustizia riparativa, le differenze

Durante l’incontro si è affrontato anche il tema della differenza tra la giustizia tradizionale e la giustizia riparativa.

Cos’è che le distingue? “È lo sguardo”, risponde Cajani. “La giustizia tradizionale ha queste categorie, cioè una responsabilità per un fatto: una persona viene condannata per quel fatto, per quel reato, e quella persona può stare in carcere e non dire niente, non pensare nulla, non guardare nulla. Lo sguardo alla giustizia riparativa è uno sguardo diverso, è una responsabilità verso qualcun altro”, spiega il magistrato. “Non basta, per fare la giustizia riparativa, mettere un tavolo e un detenuto da una parte. C’è un lavoro”, sottolinea.

E ricordando l’arrivo del gruppo dei familiari delle vittime in carcere, Cajani ha aggiunto: “Quando i familiari hanno bussato alla porta del gruppo nel 2016, hanno fatto un lavoro grandioso: dare il nome a quel dolore”. La principale differenza tra giustizia riparativa e tradizionale sta nel fatto che “la giustizia tradizionale è capace, nel bene e nel male, di aggiungere al dolore inflitto, il dolore della pena. La giustizia riparativa fa sì invece che il dolore di detenuti e familiari delle vittime siano messi insieme per cercare di riparare, di rimarginare quella ferita del tessuto sociale”.

* SkyTg24

Fonte: Ristretti Orizzonti

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