La preghiera di Trump
“Riportiamo Dio nelle nostre vite”, ha detto Trump intervenendo all’edizione 2025 della National Prayer Breakfast, una tradizione Usa nata ormai più di 70 anni fa che riunisce legislatori e importanti politici semplicemente per una funzione religiosa.
Quell’espressione rilanciata dal presidente nel suo discorso sarebbe uno spiraglio, un respiro, una piccola luce sulle deportazioni delle persone migranti, sulla violenza delle parole, sulle minacce rivolte a mezzo mondo.
Insomma, i palestinesi, per esempio, sarebbero molto felici di sapere che il presidente più potente del mondo voglia riportare Dio nelle nostre vite perché Dio ha creato gli uomini e le donne liberi e felici, e così li vuole. Dio è capace solo di amare e così vorrebbe che facessimo anche noi. Dio è amore.
“Riportare Dio nelle nostre vite” se non è uno slogan aziendale, ha conseguenze concrete e ci aspetteremmo che il presidente annunciasse la rinuncia al programma di riarmo nucleare, che decidesse di rispettare il creato e frenare i cambiamenti climatici, di rafforzare una politica di cooperazione per aiutare i paesi poveri…
E invece assistiamo a una sorta di strabismo tra le parole e i fatti, tra la preghiera e la vita. Ma così ha detto ieri Trump e poi ha pregato con tutta l’Assemblea riunita.
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