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La giustizia e i confini della critica

Gian Carlo Caselli il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica

Processi e imputati eccellenti.
L’anomalia italiana. Il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti «celebri». 
La strategia di rottura. Una difesa «dal processo» anziché «nel» processo, che non ha nulla a che vedere con un sistema di legalità.

I magistrati cui capiti la «sventura» (è purtroppo la parola giusta) di imbattersi in vicende «delicate» riguardanti imputati “eccellenti”, restii al controllo di legalità, devono mettere in conto polemiche e attacchi furiosi.

È storia dei nostri ultimi trent’anni. Antesignano Berlusconi, che insaporiva le farneticazioni su golpe ed eversione giudiziaria sostenendo che «per fare questo lavoro (di magistrati) bisogna essere matti; se fanno questo lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana».

In questi giorni le polemiche sono riesplose violente con il processo a carico di Matteo Salvini, quando i Pm del Tribunale di Palermo hanno osato chiedere la sua condanna con una requisitoria dibattimentale puntualmente motivata in fatto e in diritto. Poiché l’insofferenza ostile verso i magistrati è un fenomeno ricorrente e preoccupante, conviene inquadrarlo in un contesto più generale.

Da tempo l’intervento giudiziario è in espansione. Ciò avviene in tutti i sistemi democratici. Con una diffusione che sembra segnalarne la dimensione oggettiva, escludendo che alla sua base stiano – quantomeno in misura prevalente – forzature soggettive. Gli effetti a volte arrivano a turbare equilibri politici e destini di governi.

A questo trend il nostro Paese (è sotto gli occhi di tutti) non fa eccezione. Anzi, ha vissuto la situazione in modo particolarmente acuto, al punto che una delle maggiori anomalie italiane è l’ostilità verso la giurisdizione: il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti «celebri»; in una sorta di impropria riedizione del cosiddetto «processo di rottura», utilizzato però da membri dello Stato anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi. In altre parole, una strategia di difesa «dal processo» anziché «nel» processo, che non ha nulla a che vedere con un sistema di stretta legalità.

Un’anomalia che possiamo provare a dimostrare citando un testimone eccezionale, Bill Clinton, 42° presidente degli Stati Uniti, sottoposto a un processo condotto da un magistrato nominato apposta per il suo caso. Clinton dovette sottostare a un accertamento medico-legale circa la provenienza di alcune tracce organiche che una giovane stagista aveva «diligentemente» conservato sul suo abito. Un’umiliazione tremenda per l’uomo più potente del mondo. I suoi biografi raccontano che ne fu scosso al punto che per un bel po’ non riuscì a ritrovare la chiave in suo possesso (l’altra era custodita dal ministro della difesa) della valigetta che consentiva di accedere all’arsenale nucleare USA.

Eppure, nonostante il turbamento profondissimo, a Clinton non passò mai neanche per l’anticamera del cervello l’idea di prendersela con il giudice.

A differenza di quel che è accaduto ieri e accade oggi in Italia. Per molto meno.

Come dimostra anche il caso Salvini ricordato all’inizio di questo articolo, con la sequela di personaggi illustri pronti a sostenere il ministro ad ogni costo, contro quei poco di buono dei giudici che si ostinano a essere indipendenti. Con l’incivile corredo di feroci insulti e minacce che stanno sommergendo i Pm e i loro familiari, mettendone a rischio la sicurezza.

Preludio alla mobilitazione, con tanto di marcia sul Palagiustizia, di cui si parla per il giorno dell’arringa del difensore di Salvini. Di qui un interrogativo: siamo alle porte di uno sfondamento del confine tra critica e intimidazione e della sovversione delle regole fondamentali della giustizia?

Fonte: Corriere della Sera

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