Giustizia, quella stretta che colpisce la stampa
Il problema dei problemi del nostro ordinamento giudiziario è la durata interminabile dei processi, una vergogna che trasforma in denegata giustizia il diritto dei cittadini – tutti – ad una giustizia giusta.
In un Paese preoccupato della qualità della sua democrazia il governo si impegnerebbe al massimo per avviare a soluzione questo problema di civiltà, dedicandovi tutto il tempo e l’impegno necessari.
Invece nulla di tutto questo, mentre basterebbe una frazione millesimale della determinazione (ossessione) riservata a perseguire l’obiettivo che sembra stare più a cuore dell’attuale maggioranza: vietare la pubblicazione integrale o per estratto del testo del provvedimento con cui si dispone la custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.
Ancora ieri il Consiglio dei ministri ha aggiunto un ulteriore tassello a questo disegno.
Scopo proclamato? Rafforzare la presunzione di innocenza della persona indagata o imputata in un procedimento penale, nel solco – si dice – di una direttiva europea.
In realtà è di elementare evidenza che il vero obiettivo è quello di produrre un vulnus al diritto dei cittadini di essere informati, per cui giustamente la legge viene definita come “legge bavaglio”.
Non può esservi dubbio, infatti, che la forza persuasiva della citazione letterale di un documento dell’autorità giudiziaria è incomparabilmente superiore alle sintesi inevitabilmente soggettive cui saranno costretti i giornalisti. Ed è pienamente giustificato il timore che in caso di arresto di chi può e conta sarà più facile per gli organi di informazione a ciò interessati fornire un resoconto edulcorato dei fatti lontano dalla verità. In modo particolare quando si tratti di notizie che mettono in luce il malfunzionamento della macchina del potere, con possibili ricadute sul consenso di chi lo detiene.
La necessità di un’informazione senza bavagli, del resto, è ancor più evidente nel caso che l’indagato voglia vedere soddisfatti i propri interessi più che vedere riconosciuti i propri diritti, tanto da richiedere al legale non solo un impegno “tecnico” ma anche un aiuto per arginare le offensive che mirano a colpirne l’immagine nell’opinione pubblica. Una “committenza forte”, che contiene anche una forte richiesta di “aiuto” nei rapporti con l’informazione.
I bavagli vanno indubbiamente in questa direzione. Tanto più in un quadro generale in cui i Pm non parlano o possono parlare solo in casi eccezionali indossando una specie di camicia di forza, tanto da fare temere che prima o poi giornali, radio e tv dovranno o chiudere i servizi di cronaca o trovare altre fonti, facendo suonare campane anche non trasparenti o interessate.
Con piena soddisfazione di quei privilegiati che possono contare su una ventina di minuti del servizio pubblico tv per esporre le proprie ragioni.
Fonte: La Stampa
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