Sono stato a lungo indeciso se inserire l’intero “manifesto fondativo” in questo documento: “forse è troppo lungo” – mi dicevo – ma, letto e riletto, mi è parso pensato e scritto oggi! Allora valeva la pena di inserirlo qui .
Il documento, infatti, oltre a tracciare le linee d’azione lungo cui il Movimento si è mosso nei decenni successivi, dava corpo ad una seria presa di distanza dalle deviazioni correntizie che già allora si manifestavano. Vorrei essere chiaro: a prescindere dalla mia esperienza personale non sono mai stato tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Questo tema sarà appresso approfondito (par. “9.a” e 9”b”), ma non si può negare che il meccanismo delle correnti – così come quello dei partiti in politica – ha prodotto mostri e degenerazioni, anche prima dell’esplodere del “caso – Palamara”: appartenere a una corrente ha troppo spesso indotto l’iscritto a ritenere di avere diritto a protezione e trattamenti di riguardo da parte dei «suoi» rappresentanti e ha spinto questi ultimi – persino in seno al Csm – a scegliere in base a criteri di appartenenza, anziché di merito. Ciò è avvenuto spesso – ed è la deviazione più eclatante – per le nomine dei dirigenti degli uffici, ma anche per i trasferimenti in Cassazione o in altri uffici ambiti, per le designazioni dei relatori nei corsi di aggiornamento professionale e così via. Meccanismi perversi, dunque, ai quali – è bene ricordarlo – non si sottraggono affatto i componenti «laici» del Csm, i quali non celano, a loro volta, vicinanze e attenzioni alle aspettative delle forze politiche che li hanno proposti come candidati a quella carica.
Il Movimento per la Giustizia, sin dai suoi primi passi, intese porre all’attenzione della magistratura associata tali deviazioni che già allora si manifestavano, denunciando la cd. “questione morale” e proponendo strumenti di contrasto che sarebbero stati in breve da tutti i magistrati condivisi, almeno a parole: estraneità rispetto a qualsiasi aspettativa della politica, necessità di efficienza e trasparenza nella gestione degli uffici giudiziari (il termine “giustizia partecipata”, ormai diventato di uso comune, fu coniato proprio in un convegno del Movimento), controlli di professionalità tali da valorizzare, specie rispetto al conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, la specializzazione professionale dei magistrati nei diversi settori della loro attività. Temi urgenti e difficili che ci fecero guadagnare l’appellativo irridente di «moralisti ed aziendalisti» e che le correnti tradizionali, tutte, seppure in misura diversa e per ragioni diverse, avevano trascurato, condizionate da meccanismi che ne impedivano la discussione senza reticenze.
Era fuori di dubbio la nostra vicinanza, sul piano della condivisione dei principi su cui deve reggersi la giurisdizione, alla corrente di Magistratura democratica. Personalmente, ne apprezzavo la capacità di produzione culturale e l’organizzazione interna. Ma eravamo abbastanza critici rispetto a una compattezza ideologica così forte da conferirle una sorta di forma-partito. D’altro canto, penso che i colleghi di MD, pur apprezzando molte nostre posizioni, ci considerassero affetti da ricorrenti sintomi di qualunquismo. Solo con il tempo, abbiamo superato, credo in modo sincero, quelle reciproche diffidenze.
Il primo congresso nazionale del Movimento per la Giustizia si svolse a Milano nel novembre del 1988: le posizioni del gruppo erano diventate, in gran parte e in tempi relativamente brevi, oggetto di ampia conoscenza all’interno della magistratura, nonostante le iniziali fortissime resistenze ed i tentativi, in seguito attuati persino con una precipitosa manipolazione della legge elettorale relativa al C.S.M. del 1990 (si veda appresso su questo punto), di tenerci fuori dal C.S.M. stesso e conseguentemente di farci a breve scomparire dalla scena della magistratura associata. Di quel convegno in tanti ricordiamo uno storico intervento di Giovanni Falcone che venne pubblicato su La Repubblica del 9 novembre e che dovrebbe oggi essere ripubblicato. Iniziava così: “Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili. Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato impiegato…Basta con un’Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il CSM”.
Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, il Movimento fu oggetto di interesse da parte di molti giovani magistrati “innamorati” della Costituzione che vedevano in tanti modi violentata. Fuor di metafora il Movimento per questi neo magistrati fu la naturale scelta di associazionismo perché costituito da persone che non badavano a sé medesimi, che non parlavano di carriera e di posti, bensì di come inverare la Costituzione e di come servirla al meglio: insomma furono in tanti a scommettere il meglio delle proprie energie sulla scelta “movimentista”, sia pure con fortune alterne.
Alla fine degli anni ‘80, il Movimento iniziò un percorso di comune impegno associativo insieme al gruppo di Proposta ’88, che, nato da una scissione all’interno di Magistratura indipendente per ragioni in qualche modo simili a quelle che avevano indotto i “verdi” a lasciare Unicost, era guidato da Stefano Racheli, Alfonso Amatucci ed altri colleghi. Ad un certo punto, dopo un intenso confronto ed iniziative comuni, i due gruppi decisero di fondersi adottando inizialmente la denominazione “Movimento per la Giustizia – Proposta ‘88”, mutata poco dopo, più semplicemente, in “Movimento per la Giustizia”. La fusione fu seguita in particolare da un primo comitato paritetico provvisorio di cui facevano parte – per il Movimento – Mario Almerighi, Leo Agueci, Gianni Kessler e Ippolisto Parziale. Il conseguente apparentamento elettorale diede ottimi risultati in occasione del rinnovo del CSM nel 1990, di cui parlerò appresso.
Intanto, in un crescendo di impegno diffuso, il Movimento aveva per la prima volta pubblicato un proprio periodico autofinanziato, Impegno per la Giustizia, ovviamente in cartaceo verde. Il primo numero fu quello dell’ottobre/dicembre 1989 [3], stampato presso una tipografia romana. Il primo direttore fu Roberto Sciacchitano. Stampa, pubblicazione e diffusione del periodico, come tutte le attività del Movimento ancora oggi, furono autofinanziate[4].
Proprio tra il 1989 e l’inizio del 1990, il Movimento si trovò di fronte al problema che storicamente si presenta per gruppi o movimenti che, nati per fungere da stimolo per le istituzioni di riferimento, devono a un certo punto decidere se andare avanti limitandosi a criticarle e a dare suggerimenti dall’esterno o se concorrere a renderle più trasparenti ed efficienti dell’interno.
Partecipare o no alle elezioni del 1990 per il rinnovo del Csm, dunque, fu l’interrogativo che il Movimento affrontò in un importante congresso nazionale a Milano. Vladimiro Zagrebelsky, io ed altri eravamo contrari. L’assemblea decise diversamente ed ebbe ragione, nonostante il varo in extremis della citata legge elettorale che, introducendo un quorum altissimo di consensi (9%) per accedere all’assegnazione dei posti con metodo proporzionale, intendeva dichiaratamente colpire il nostro neonato gruppo «eretico», impedendone l’accesso al Csm. Ma il Movimento, ormai corpo unico con Proposta ’88, riportò un successo inaspettato, specie tra i giovani magistrati, raggiungendo il 14% circa dei consensi e portando nel Csm ben tre suoi candidati (Alfonso Amatucci, Nino Condorelli e Luigi Fenizia) anche se tra gli eletti non vi fu Giovanni Falcone che, dopo la nascita del gruppo, vi si era dedicato con tutta l’energia che gli impegni di lavoro gli consentivano. Aveva accettato di candidarsi alle elezioni per il rinnovo del Csm ma non fu eletto, nonostante si fosse ben “speso” nella campagna elettorale. Credo che, al di là delle eccellenti qualità degli altri eletti, anche la parte di magistratura che rappresentavamo dimostrò in tal modo la falsità dell’assunto secondo cui chi si impegna strenuamente nel settore dell’antimafia, acquistando notorietà e però rischiando la pelle, diventa per ciò solo popolare e amato da tutti e fa più facilmente carriera. Lo aveva teorizzato, come si sa, Leonardo Sciascia: «I lettori, comunque, prendano atto» – scriveva Sciascia chiudendo il suo celebre attacco ai «professionisti dell’antimafia», pubblicato sul «Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987 – «che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Si riferiva in quel caso alla nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala che il Csm aveva deliberato pochi mesi prima, preferendolo a magistrati con maggiore anzianità ma minor esperienza nel campo delle indagini sulla criminalità mafiosa.
Tornando a Falcone, a quella piccola grande delusione egli reagì con il sorriso ironico e con il distacco proprio dei siciliani colti, fatalisti, abituati a vivere alla giornata e a non meravigliarsi di nulla. Fu probabilmente più forte un’altra successiva sua delusione e anch’io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza. Ne voglio spiegare le ragioni che rimandano anch’esse alla visione della giustizia del nostro gruppo.
Era accaduto che alla vigilia del varo della Direzione nazionale antimafia – e subito dopo – altre discussioni divisero noi magistrati: riguardavano appunto Giovanni Falcone. Non posso dire di avere lavorato con lui nel settore dell’antimafia, ma siamo stati molto vicini tra il 1988 e il 23 maggio del 1992, anche lavorando intensamente insieme nel Movimento per la Giustizia, fin quasi alla sua morte.
Ciononostante, in molti non approvavamo il fatto che egli avesse assunto nel marzo del 1991 il ruolo di direttore generale degli Affari penali offertogli dal ministro della Giustizia ad interim Claudio Martelli. Capivamo il suo disagio nel continuare a lavorare nella Procura di Palermo – alla quale nel frattempo era stato trasferito con funzioni di procuratore aggiunto – ormai diretta secondo criteri che non condivideva e che a molti sembravano burocratici: una situazione simile, cioè, a quella che Paolo Borsellino aveva denunciato pubblicamente nel luglio del 1988. E credevamo pure alla sua volontà di dimostrare con i fatti quanto infondato fosse il nostro timore di vederlo ingabbiato e trasformato in testimonial inconsapevole del governo. Ciononostante, avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico: gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità e lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: «…capisco i vostri timori, ma io sarò più forte di loro… e sarò più utile al paese ed alla magistratura lavorando al ministero piuttosto che ingabbiato a Palermo». Ovviamente ci vedemmo altre volte, ma mai, sul suo volto o nelle sue parole, ho potuto cogliere un solo cenno di risentimento. Elaborò, mentre era al ministero, il progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia (DNA) e delle Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA) e anche in questo caso patì qualche critica per la sua originaria impostazione. Il 28 ottobre del 1991 una sessantina di magistrati (tra cui io stesso) sottoscrisse un documento contenente alcune critiche e preoccupazioni: alla luce delle competenze che si volevano attribuire alla DNA, in particolare, era forte il rischio di una centralizzazione delle indagini in tema di mafia e di una sua sostanziale dipendenza dall’esecutivo. Qualcuno ancora oggi, spero senza ricordare o voler capire, considera quell’appello un subdolo attacco a Giovanni. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo quelle di Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli.
Si trattava di critiche, dunque, che nulla avevano a che fare con altre posizioni inaccettabili, come quelle leggibili in una retriva circolare del CSM del 1993 che definiva le DDA come potenziali incrostazioni e centri di potere. Per cambiare quella circolare il Movimento si impegnò in nome della necessità della specializzazione dei saperi.
Ma altre critiche, più personali, piovvero addosso a Falcone quando, approvata la legge istitutiva, si candidò alla carica di procuratore nazionale antimafia: in molti, anche all’interno della nostra corrente, pensavamo che per Giovanni fosse inopportuno proporre domanda per quella carica dopo essere stato l’artefice della legge con cui essa era stata istituita. Io stesso gli scrissi l’8 febbraio del 1982 un’altra lettera di cui conservo copia: gli esprimevo con franchezza le mie riserve pur confermandogli amicizia e stima. Giustamente, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato più volte l’assurdità di quei dubbi diffusi: chi, se non Giovanni Falcone, poteva essere in quel momento il procuratore nazionale antimafia? Ma quelle discussioni finirono forse con il raffreddare i rapporti di Giovanni con il Movimento, pur se quei dubbi non avevano in alcun modo intaccato la nostra stima ed i nostri sentimenti nei suoi confronti.
Comunque, prima che il Csm nominasse il procuratore nazionale, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, furono trucidati dalla mafia. Ricordo precisamente dov’ero, quel 23 maggio 1992, quando appresi della tragedia. Così come lo ricordo per gli annunci dell’assassinio di John Kennedy, dello sbarco del primo uomo sulla Luna e dell’impatto degli aerei sulle Twin Towers.
Tornando al Movimento ed alla mia esperienza professionale e di “militante”, rammento che il gruppo mi chiese la disponibilità a candidarmi per il rinnovo del CSM nel 1994, ma rifiutai per gli assorbenti impegni di lavoro nella Procura di Milano. Quelle elezioni fecero registrare un nostro successo ancora maggiore di quello del 1990 e i nostri rappresentanti in seno al Csm passarono da tre a quattro. Mi impegnai in campagna elettorale accompagnando presso i Tribunali della Lombardia il nostro candidato di spicco, Vladimiro Zagrebelsky, magistrato e studioso di eccezionale livello, eletto insieme a Sergio Lari, Saverio Mannino e Paolo Fiore.
Fu proprio Zagrebelsky, unitamente a Stefano Racheli, a chiedermi di candidarmi nel 1998. Questa volta accettai. Negli anni precedenti, a causa dell’impegno nel settore Antimafia, mi ero anche dimesso dal ruolo di segretario nazionale del Movimento, appena tre mesi dopo esservi stato designato dall’assemblea del gruppo. Avevo sbagliato a pensare di poter esercitare quella funzione in presenza di un impegno professionale così assorbente, sulla cui priorità non ho mai avuto alcun dubbio. Ma nel 1998, avevo ormai esaurito tutti i principali dibattimenti di mafia, potevo sentirmi in pace con la mia coscienza professionale, ero decisamente motivato per un impegno nell’organo di autogoverno e, soprattutto, mi spingeva l’affetto dei tanti colleghi che mi chiedevano di fare quella scelta. In tanti mi accompagnarono in campagna elettorale, presso le sedi giudiziarie della Lombardia, del Trentino, della Toscana, della Sardegna e della Calabria che costituivano il mio collegio elettorale. La «campagna elettorale» fu coinvolgente e ricca di entusiasmo: tanti volti di giovani colleghi che non conoscevo – e le loro attese – mi incoraggiarono facendomi comprendere che il Movimento per la Giustizia era ormai ben radicato nel territorio nazionale. Il successo fu confortante e, soprattutto, era evidente che non eravamo in alcun modo considerati un gruppo elitario da sostenere per ottenere qualcosa in cambio: a dieci anni dalla fondazione del gruppo, come ha scritto Giovanni Tamburino, potevano ormai contare sull’apporto ed i contributi di chi non aveva partecipato a quella fase iniziale, ma si era a noi avvicinato condividendo i nostri programmi e le nostre conseguenti condotte associative, istituzionali e professionali.
Con me, furono eletti altri due “storici” colleghi del Movimento per la Giustizia: Ippolisto Parziale, giudice a Roma ed uno dei maggiori protagonisti della “messa in opera” organizzativa del gruppo, e Gioacchino Natoli, sostituto procuratore della Repubblica a Palermo ove aveva speso molti dei suoi anni di lavoro accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: erano stati per lui i fratelli e maestri che per me erano stati Guido Galli ed Emilio Alessandrini.
Il 31 luglio del 1998, al Quirinale, prestammo giuramento quali componenti eletti del Consiglio superiore della magistratura, stringendo la mano di Oscar Luigi Scalfaro, uno dei presidenti della Repubblica più amati dagli italiani, che era stato magistrato prima di entrare in Parlamento.
Molti magistrati, specie negli ultimi anni, sostengono che l’approdo al Csm costituisca il punto d’arrivo al termine di una carriera associativa a ciò finalizzata. E si dolgono se chi ha svolto attività associativa a livello dirigenziale o è stato componente del Csm transiti poi tra i magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia o altri ministeri. Insomma, viene denunciata l’esistenza di una sorta di carriera parallela o alternativa rispetto a quella di chi passa i giorni seduto alle scrivanie di uffici, spesso in condizioni di estrema difficoltà. Talvolta è possibile individuare un fondo di verità in queste impietose valutazioni, ma si scivola nel qualunquismo, a mio avviso, se accuse di questo tipo vengono formulate in modo immotivato e indistinto. Penso, infatti, che le esperienze di molti magistrati possano risultare proficue anche in incarichi ministeriali se si conservano, come spesso ho detto, le caratteristiche di indipendenza e autonomia proprie della nostra professione. Ma penso anche che la vita associativa possa assumere un significato alto ove non comporti disattenzione verso i propri doveri professionali e sia ispirata non da logiche particolaristiche, bensì dai valori e dagli scopi che furono condivisi da quei magistrati che il 13 giugno del 1909 fondarono, a Milano, l’Associazione generale tra i magistrati italiani (Agmi, come allora si chiamava).
Rivendico con un certo orgoglio – e forse con una dose di ingenuità – le ragioni che hanno indotto magistrati appartenenti al Movimento per la Giustizia (e certamente non solo loro) a candidarsi per ruoli elettivi come quelli di componenti del Csm o degli organi direttivi dell’ANM : lo hanno fatto – mi auguro e credo – pensando al CSM e all’Associazione quali organi capaci di difendere la dignità e l’indipendenza assoluta dei magistrati, ma contemporaneamente attenti alla tutela dei diritti dei cittadini. Credo che il Movimento per la Giustizia non abbia mai pensato all’ANM come l’organo di rappresentanza di una «corporazione» o come un «sindacato delle toghe», una definizione, come ha detto giustamente Giuseppe Berruti, componente del Csm nel quadriennio 2006-2010, che è già un modo per intaccarne l’autorevolezza.
Ricordo molte cose belle ed interessanti della mia esperienza al CSM da cui molto ho appreso, ma c’è un episodio che non dimenticherò: vivevamo il difficile periodo in cui Ministro della Giustizia era Roberto Castelli che l’l marzo del 2002 fece una rapida apparizione a Salerno, dove era in corso il XXVI Congresso nazionale dell’Anm su Tempi e qualità della giustizia. Castelli arrivò nell’affollato salone e prese posto in prima fila, giusto pochi minuti prima che prendesse la parola Nello Rossi, il collega consigliere di Magistratura democratica che, con la sua consueta capacità oratoria e con puntualità di argomenti, ebbe modo di elencare al ministro le ragioni di delusione e preoccupazione della magistratura italiana. Castelli parlò subito dopo di lui, suscitando con le sue parole accentuati mormorii e proteste. Immediatamente dopo, mentre come membro del CSM mi accingevo anche io a salire sul palco per il mio intervento, lasciò la sua poltrona in prima fila e abbandonò i lavori congressuali. Il fatto non mi sconvolse più di tanto ed anzi acuì la mia vis oratoria. Parlai, così, rivolto a quella poltrona vuota in prima fila, quasi si trattasse di un preordinato colpo di teatro: «Prendo atto, preliminarmente, che il ministro della Giustizia, appena terminato il suo intervento, sta abbandonando il convegno: è il suo modo di mostrarsi disposto al dialogo, interventi ‘mordi e fuggi’, senza attribuire alcun rilievo alle opinioni altrui. Parlerò, dunque, alla sua poltrona vuota, pregando i presenti di non occuparla». Dopo avere elencato i guasti prodotti dalle leggi varate in quei mesi, ricordai le critiche che piovevano addosso all’Italia da ogni parte d’Europa e, sempre fissando la sua sedia vuota, chiesi al ministro se pensasse davvero che l’Europa fosse popolata di toghe rosse e di nemici dell’Italia. «State portando il paese verso l’oscurantismo giudiziario», conclusi… Il Ministro non c’era, ma forse sapeva quale era la posizione del Movimento che in quell’occasione esposi in nome dell’intera magistratura.
* Prima parte della Relazione tenuta al corso “Storia della magistratura e dell’Associazionismo” per la SSM a Scandicci 3/5 ottobre 2022 nella Quarta sessione: “Le Correnti dell’ANM dai programmi ai segni della crisi: una prospettiva storica”. La seconda e la terza parte saranno pubblicate nei prossimi giorni.
Fonte: Giustizia Insieme
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Armando Spataro è stato uno dei fondatori del Movimento per la Giustizia nel 1988. Questo intervento contiene riflessioni ed ampi brani in parte già pubblicati in un suo libro (Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e Mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa, Laterza, 2010), nonché in interviste ed articoli vari, tra cui quelli pubblicati su Giustizia Insieme, Questione Giustizia, I diritti dell’uomo, Politica del Diritto e in relazioni predisposte per Corsi di aggiornamento della SSM. Vengono anche riportati, con l’assenso degli autori, brani tratti da due interventi di Giovanni Tamburino e Vito D’Ambrosio, pubblicati sulla rivista “Giustizia Insieme” 0/2008, in occasione del ventennale della fondazione del Movimento per la Giustizia. Anche ogni più limitata citazione di interventi ad altri attribuibili, comunque, è qui riportata con l’assenso dei rispettivi autori. Va precisato, infine, che – ai fini della redazione del presente documento – sono risultati utili i suggerimenti di altri vari “storici” appartenenti al Movimento per la Giustizia – Art. 3.
Durante il suo intervento a Scandicci (SSM), l’autore – secondo lo schema previsto anche per gli altri tre relatori (Mario Cicala per Magistratura Indipendente; Wladimiro De Nunzio per Unità per la Costituzione e Vittorio Borraccetti per Magistratura Democratica) – è stato intervistato da Antonella Magaraggia, co-fondatrice e già Presidente del Movimento per la Giustizia.
Note
[1] Va qui citato “Cento anni di Associazione magistrati”, a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara (Ipsoa, Milano 2009), distribuito dall’Anm in occasione del centenario della sua fondazione, celebrato a Roma, alla presenza del capo dello Stato e di altre alte autorità, il 25 giugno del 2009. Nel libro, vi è anche descritta la storia delle correnti dell’Associazione, in buona parte analizzata anche nell’intervento di Giovanni Mammone (1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de «La Magistratura»).
[2] Nel sito web del Movimento per la Giustizia, si può leggere comunque uno storico volantino scritto tra il 1984 ed il 1988, cioè nel periodo in cui il gruppo allora dei “Verdi” era ancora nella corrente di Unità per la Costituzione, che cercava di cambiare dall’interno. Vi si possono rinvenire le linee-guida di un’idea della giustizia – fatta propria dal Movimento – che ancora oggi appassiona perché spinge ad esaminarne i problemi nell’ottica e nell’interesse del cittadino, non del magistrato.
[3] Autorizzazione del Tribunale di Roma del 7 giugno 1989.
[4] Attualmente la “quota sociale” versata dagli iscritti ammonta a 12,00 euro mensili (144,00 euro annuali).