Aemilia, il sequestro del condannato
Si è barricato nell’ufficio postale di Pieve Modolena, in provincia di Reggio Emilia, uno dei condannati nel Processo Aemilia. Si chiama Francesco Amato e mercoledì 31 ottobre è stato condannato in primo grado a 19 anni e 1 mese per associazione mafiosa, estorsioni e minacce, dopodiché è scomparso. In aula era sempre stato presente durante le udienze, protagonista più volte di critiche ai giudici e proteste dentro e fuori dall’aula bunker del Tribunale di Reggio Emilia. Ma il giorno dell’attesissima sentenza del maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana non si è fatto vedere: quando le forze dell’ordine sono andati a casa sua per condurlo in carcere, di lui non c’era traccia.
Ed è ricomparso solo lunedì 5 novembre, quando ha paralizzato la via Emilia: alle 8 di mattina si è chiuso, armato di coltello, nell’ufficio postale del paesino reggiano, prendendo in ostaggio quattro dipendenti e la direttrice, per protestare contro una condanna secondo lui ingiusta. “Vi ammazzo tutti, sono quello che ha preso 19 anni, voglio parlare con Salvini”, ha dichiarato. Poco prima aveva chiesto di parlare con il Ministro della Difesa, Elisabetta Trenta.
Si è svegliata l’Emilia, o almeno quella parte che non si era svegliata dopo l’Operazione Aemilia, il 28 gennaio del 2015, dopo l’inizio del maxiprocesso, dopo le sentenze di mercoledì scorso, dopo aver sentito parlare di ‘ndrangheta emiliana nel video in cui l’ex calciatore Iaquinta urla contro i giudici. Si è svegliata, l’Emilia, e si è resa conto che la ‘ndrangheta fa paura.
Ma la violenza della ‘ndrangheta emiliana era già emersa più e più volte durante le udienze di Aemilia. Ci sono stati danneggiamenti, incendi, estorsioni, minacce e, addirittura, due omicidi, i cui colpevoli sono stati condannati poche settimane fa nel primo grado di Aemilia 1992. La violenza della ‘ndrangheta emiliana si è palesata durante le udienze nei testimoni intimiditi, che avevano paura di parlare, che ritrattavano le loro dichiarazioni, si è palesata nel fatto che solo uno dei tredici lavoratori sfruttati dalla cosca durante la ricostruzione post-terremoto si è costituito parte civile.
“Ve lo giuro sui miei figli, non mi ricordo”, aveva detto un testimone, vittima di estorsione.
“All’inizio non ero intimorito, ma ora sì: ho tre bambini. Sono stato avvicinato quando ho deciso di costituirmi parte civile, ora ho paura”, ha detto quell’unico operaio che ha deciso di denunciare lo sfruttamento subito.
Dopo 8 ore di sequestro, Francesco Amato si è arreso: ha rilasciato gli ostaggi e si è consegnato ai Carabinieri. All’uscita lo aspettavano i familiari, che l’hanno accolto applaudendo: “Bravo Francesco. E bravi voi che avete sconfitto la ‘ndrangheta!”, hanno detto, sulla scia di quanto avevano detto in aula il giorno della sentenza.
Ascoltato dai giudici giovedì 8 novembre, tre giorni dopo il fatto, ha dichiarato che avrebbe parlato solo se ci fossero stati anche i giornalisti. I cronisti, però, sono stati mandati fuori dall’aula e Amato non ha risposto ad alcuna domanda. Voleva la ribalta mediatica, la stessa che gli ‘ndranghetisti avevano cercato di oscurare durante lo svolgimento del processo, quando volevano passare per semplici imprenditori e non come mafiosi: il 17 gennaio 2017 Michele Bolognino aveva chiesto, a nome di tutti gli imputati, che il processo procedesse a porte chiuse, con l’esclusione di tutti i giornalisti dall’aula.
Ora le indagini faranno luce sul reale scopo del sequestro del 5 novembre: un contrattacco alla sentenza? Un tentativo di riposizionamento della ‘ndrangheta emiliana dopo le condanne?
Un sequestro messo in atto da un personaggio che anche Marco Mescolini, Pubblico Ministero di Aemilia, ha confermato essere realmente pericoloso: “La requisitoria su Francesco Amato, fatta dalla mia collega, è durata una mattina – ha dichiarato il Pm ai giornalisti il 6 novembre -. L’entità della condanna descrive un personaggio coerente a ciò che si è dimostrato ieri. La sua storia criminale durante il processo è emersa con chiarezza”.
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