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Falcone, i boss e il 41 bis. Un’emergenza mai finita

Gian Carlo Caselli il . Cultura, Giustizia, Istituzioni, L'analisi, Mafie, Memoria

I successi del maxiprocesso, l’emarginazione e i veleni sull’antimafia. L’eredità di un magistrato scomodo a 31 anni dalla strage di Capaci.

Il 23 maggio di 31 anni fa, a Capaci, polverizzando un lungo tratto di autostrada e mirando dritto al cuore dello Stato, Cosa nostra sterminava Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i ragazzi della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

La storia di Falcone è il paradigma di una tendenza del nostro Paese a disegnare la reputazione – anche delle persone migliori – con gli alti e i bassi di un otto volante, in ragione di polemiche scatenate ad arte e/o  prive di reale consistenza.

Falcone è stato sulla cresta dell’onda quando il capolavoro del “Maxi-processo” – squarciando la cortina di impunità e complicità fin lì dominante – dimostrò che Cosa nostra può essere contenuta e sconfitta. Fu però ripagato con una serie di “schiaffoni” che gli italiani della mia generazione stanno dimenticando mentre quasi tutti i giovani ne sanno poco o nulla.

Il primo colpo fu il più doloroso. Dovendosi designare il nuovo capo dell’ufficio istruzione di Palermo, con “motivazioni risibili” e “qualche giuda che si impegnò subito a prenderlo in giro” (parole di Paolo Borsellino), la maggioranza del CSM gli preferì un magistrato inesperto di mafia, semplicemente più anziano, decretando cosi la cancellazione del un metodo di lavoro che stava portando alla sconfitta della mafia.

Intanto si sviluppava una furibonda campagna di delegittimazione nella quale Falcone veniva accusato di nefandezze assortite, tipo “maccartismo” o trasformazione della lotta alla mafia in un “grande spettacolo”, per fini politici di parte se non per potere personale. La sua “colpa” era anche di non essersi limitato a colpire l’ala militare di Cosa nostra, ma di aver osato indirizzare le  indagini pure verso le complicità esterne (Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania…).

Dopo una torbida stagione di dossier, corvi e veleni ; dopo una penosa odissea di mortificazioni ed emarginazioni professionali (un vero e proprio mobbing); mentre “probi cittadini” scrivevano ai giornali protestando per il  fastidio delle auto a sirene spiegate, invitando Falcone a togliere il disturbo relegandosi in qualche ghetto “fuori porta”; alla fine l’aria di Palermo si fece irrespirabile.

Tutte le porte gli venivano sbattute in faccia e Falcone fu costretto ad “emigrare” al Ministero della giustizia di Roma. A un professore che lo aveva invitato a restare risponde (con una lettera rimasta a lungo inedita) di essere “convinto che il [suo] posto sia a Palermo”, ma spiega che ha scelto Roma per potervi “impiegare tutte le energie possibili per la lotta alla mafia” e  che il suo “non è un abbandono”. Che difatti non vi fu per niente, posto che a Roma Falcone creò, sul  versante organizzativo e su quello investigativo-giudiziario, un’antimafia moderna che ancora oggi funziona, nonostante il tentativo stragista di cancellarla col sangue.

Il fatto è che neppure oggi l’ottovolante si è fermato. Sono molti (non tutti in buonafede) a sostenere che a più di trent’anni dalle stragi la situazione è cambiata, l’emergenza è finita, per cui occorre ripristinare lo stato di diritto stravolto dalla normativa antimafia. Ma stiamo parlando di una normativa imperniata sull’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, ideato da Falcone, varato subito dopo la sua morte, poi insabbiato, ripescato e approvato solo con l’uccisione di Borsellino.

Si tratta dunque di una norma “targata” Falcone-Borsellino. Purtroppo anche intrisa del loro sangue. Ecco di nuovo l’ottovolante, nel senso che è irriverente e quasi oltraggioso (quali che siano le intenzioni) parlare di necessità di recuperare lo stato di diritto accampando tesi che sono frutto di mancanza di memoria e senso etico.

Tesi, oltre tutto viziate da un limite culturale che da sempre ci affligge. Quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto quando la mafia mette in atto strategie sanguinarie; trascurando i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie «attendiste»; dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella straordinaria capacità di condizionamento della politica, dell’economia e delle istituzioni che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale. Perciò quella della mafia, ammesso che possa definirsi emergenza, non è un’emergenza contingente, ma permanente.

In ogni caso, la storia di Falcone ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di prendersela con i magistrati  “scomodi” perché adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno, con “troppa” indipendenza.

Un malvezzo (che non riguarda ovviamente le critiche, sempre legittime) di recente riciclato per i  magistrati che con coraggio e coerenza hanno operato nel cosiddetto processo trattativa, spesso dileggiati persino con linguaggio fantozziano per aver voluto decifrare storie poco chiare che interessano anche la qualità della nostra democrazia.

Fonte: La Stampa, 23/05/2023

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