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Caso Conigliaro/Capaci. Un processo che non si doveva nemmeno istruire

Rino Giacalone il . Forze dell'Ordine, Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica, Società

I giudici rigettano il ricorso della Procura militare, il luogotenente dei Carabinieri Paolo Conigliaro non andava processato.

Adesso siamo alla fine di una vicenda giudiziaria che, apprendiamo, in maniera ulteriore e definitiva, non doveva nemmeno esistere.

La Cassazione ha confermato quello che i giudici militari di appello avevano scritto, ribaltando le conclusioni del primo grado: il luogotenente dei Carabinieri, Paolo Conigliaro, ex comandante della stazione di Capaci, oggi in servizio alla Dia di Palermo, non solo non doveva essere condannato, come decisero i giudici del Tribunale militare di Napoli, ma non doveva nemmeno essere processato.

Ce ne è voluto di tempo per stabilire ciò di cui si aveva avuto sentore all’epilogo di questa triste e amara storia. Ci sono state “manine” ma anche esperti del “masciariamento”, per dirla alla siciliana, tragediatori nemmeno tanto oscuri, che non solo hanno indotto i vertici dell’Arma a rimuovere dal comando della stazione di Capaci un sottufficiale che con le sue indagini suscitava fastidi e pruriti, il luogotenente Paolo Conigliaro, ma lo hanno fatto passare anche per una sorta di diffamatore seriale.

La notizia della decisione della Cassazione è di qualche ora fa. Ci limitiamo adesso a darne notizia. Come redazione spesso ci siamo occupati di Capaci, della vicenda processuale del luogotenente Conigliaro, e quindi “battere” subito la notizia ci appare cosa giusta e doverosa per il diritto di cronaca.

Ma torneremo ad occuparci della vicenda, alla quale il collega Giuseppe Lo Bianco ha anche dedicato l’ultimo dei suoi libri dal titolo “Una indagine pericolosa. Un maresciallo e gli intrighi di Capaci”, edito da Zolfo.

La Cassazione ha confermato quanto deciso lo scorso ottobre dai giudici militari della Corte di Appello di Roma. Una decisione che riformò in maniera netta la decisione con la quale il Tribunale militare di Napoli aveva condannato a cinque mesi e per diffamazione, il luogotenente Paolo Conigliaro. Un processo che era scaturito dalla querela di altri due colleghi di Conigliaro, i sottufficiali Salvatore Luna e Andrea Misuraca.

La Corte di Appello di Roma in una sola udienza, respingendo la decisione dell’accusa, che aveva chiesto la conferma della condanna, mise nero su bianco che il luogotenente Paolo Conigliaro non solo non meritava quella condanna ma che addirittura non doveva nemmeno finire sotto processo.

Tecnicamente i giudici evidenziarono l’improcedibilità, in altri termini questo processo non doveva nemmeno farsi. Indagine, processo e condanna di primo grado hanno sporcato una divisa.

La Cassazione è stata anche di questa opinione, confermando il giudizio di secondo grado. Un processo anomalo sin dalla sua istruttoria, la manovra persecutoria contro Conigliaro si vide sin dall’inizio, per lui, uno dei migliori investigatori dell’Arma, ci fu la rimozione dal comando, la convocazione dinanzi ai suoi superiori per una vergognosa perquisizione che toccò anche gli ambiti familiari, la minaccia del trasferimento ad un ufficio in un sottoscala di uno dei comandi regionali, l’impedimento a poter assumere il comando di un’altra stazione, e poi il tentativo di fargli terra bruciata attorno.

E poi questo processo per diffamazione, una querela presentata per il contenuto di una chat privata tra un paio di militari dell’Arma, qualche manina che portò fuori una parte del contenuto, anche il tentativo di falsare, fino a “taroccare” quello che era stato scritto, tanto che alla fine si ebbe l’impressione che si trattò di una condanna “telecomandata”.

Non a caso la commissione nazionale antimafia della trascorsa legislatura, presieduta dal senatore Nicola Morra, si è occupata del “caso Conigliaro”.

Conigliaro da comandante della stazione di Capaci si è occupato di vicende rilevanti, alcune collegate a quel sistema criminale che intanto era oggetto di indagini presso la procura distrettuale di Caltanissetta, il cosiddetto “sistema Montante”. Il cerchio magico dell’enfant prodige di Confindustria, Antonello Montante, avrebbe avuto precisi interessi imprenditoriali a Capaci, e “cupole” pronte a proteggere questi interessi.

Personaggi in grado di bloccare le indagini, questo è quello che è avvenuto. Questo meriterebbe una indagine e un processo. Evidenze di legami tra il processo a Conigliaro e gli interessi degli amici di Montante a Capaci non ce ne sono, ma come ci è stato imparato a dire, a pensar male si fa peccato ma talvolta ci si azzecca.

La bicamerale dell’Antimafia, guidata dal presidente Morra, ha consegnato agli atti parlamentari una sua relazione.

Conigliaro da comandante della stazione dei Carabinieri di Capaci scoprì che mentre Montante finiva arrestato e condannato a Caltanissetta, aveva ancora suoi eredi in giro per la Sicilia a fare affari, a tenere vivo quel cerchio magico fatto di rapporti con alte sfere delle istituzioni, anche del mondo delle forze dell’ordine.

Conigliaro con le sue indagini aveva fatto venire fuori il verminaio di Capaci, ma mai trovò un sostegno adeguato. E non lo trovò nemmeno quando scrisse un voluminoso rapporto che avrebbe dovuto portare allo scioglimento per inquinamento mafioso del Comune di Capaci mentre sindaco era Sebastiano Napoli, il predecessore dell’attuale primo cittadino Pietro Puccio.

Su questo rapporto la Commissione nazionale antimafia ha accertato quello che anche noi abbiamo scritto: il dossier non arrivò mai sul tavolo dell’allora prefetto di Palermo Antonella De Miro, finì chiuso nei cassetti del comando provinciale dell’arma dei Carabinieri di Palermo. Circostanza che avrebbe dovuto far saltare dalla sedia decine di persone, ma tutto finì coperto dal clamore del processo militare intanto aperto contro Conigliaro.

Una vicenda squallida quanto grave. Una storia che sfiora la prefettura di Palermo, i cui vertici avrebbero saputo determinati comportamenti omissivi, ma preferirono il silenzio invece di agire. La proposta di accesso che doveva arrivare in prefettura si fermò e sparì negli uffici del comando provinciale di Palermo.

Conigliaro da quel momento cominciò a subire vere e proprie vessazioni, impedito anche nel potere mettersi a rapporto con il comando di Regione e con il comandante generale dell’Arma. Infine destituito dal comando della stazione.

Oggi vorremmo che la Procura di Palermo riprenda in mano i dossier a firma del luogotenente Paolo Conigliaro, dentro queste carte ci sono le prove di quella mafia in grisaglia, la “mafia borghese”, che continua a fare affari, di politici che di notte fanno come Penelope, disfacendo quello che si fa alla luce del sole, di politici che parlano di antimafia e poi si fanno fotografare con gli amici degli amici, di politici che dicono che la mafia non esiste, quando sanno benissimo che dicono il falso mentre pronunciano queste affermazioni.

Intanto soffermiamoci sul processo a Conigliaro adesso concluso. In poche parole ce lo ha riassunto l’avvocato Giustino Ferraro: “La questione dell’improcedibilità dell’azione penale noi l’avevamo sollevata quattro anni fa dinanzi al gup, in sede di udienza preliminare, quindi prima che il processo prendesse corpo e già in quella sede se il giudice fosse stato attento ovviamente avrebbe potuto evitare tanti anni di indagini processuali. C’è voluta la Corte di Appello prima e la Cassazione adesso per mettere punto a questa vicenda, il luogotenente Conigliaro non andava processato. Siamo stati fiduciosi nella giustizia e oggi siamo contenti per l’esito”.



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La Via Crucis di Paolo Conigliaro, Luogotenente dei Carabinieri

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