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Regeni, trovo giusto convocare Meloni e Tajani. Ora si apra il processo, anche senza gli imputati

Davide Mattiello il . Diritti, Giovani, Giustizia, Informazione, Istituzioni, Politica, Società

Il gup di Roma squarcia il velo dell’ipocrisia ed accoglie la richiesta, avanzata dalla famiglia Regeni, rappresentata dall’avv. Ballerini, di sentire la presidente del Consiglio Meloni ed il ministro degli esteri, Tajani: un modo per verificare il tasso di impostura nelle parole che normalmente i rappresentanti del governo italiano hanno adoperato in questi anni, in sintonia col governo egiziano.

Una mossa politicamente “scorretta” e moralmente giustissima per tentare di scoprire cosa ci sia di reale nella formula usata ed abusata in questi anni sulla manifesta volontà del governo egiziano di collaborare alle indagini (con il governo Meloni si è arrivati persino alla “promessa”!).

Attenderemo quindi con ansia il 3 aprile perché Giulio Regeni non può essere ucciso un’altra volta dai fantasmi egiziani, “finti inconsapevoli” che rischiano di offendere mortalmente quel che resta del senso di giustizia in tutti noi.

I loro nomi (che vanno sempre scritti e pronunciati in testa ad ogni intervento sul tema, come chiedono la famiglia ed i legali di Giulio): il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif.

Sono questi i quattro agenti dei servizi egiziani, che la Procura di Roma ritiene a vario titolo responsabili del sequestro, della tortura e dell’assassinio di Giulio Regeni. Sono questi che l’Italia vorrebbe processare dopo sette anni di lavoro caparbio, che ha dovuto avere ragione di almeno quattro tentativi di depistaggio. Ma, come è noto, non essendo stato possibile fin qui notificare loro l’inizio del processo, questo rischia di non potersi celebrare. È chiaro che i quattro sanno perfettamente quello che sta succedendo ed è altrettanto chiaro che l’impossibilità di procedere con le notifiche dipenda dalla volontà delle autorità egiziane.

Tutto questo è chiaro anche ai governi italiani, ovviamente, che si sono succeduti in questi sette anni, e che hanno tenuto tutti lo stesso atteggiamento, ruvido a parole, ma non conseguente nei fatti, tanto da far scrivere in un post al legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini: “Sette anni. Chissà cos’hanno tutti da nascondere per ostacolare la verità con tanta oltraggiosa determinazione. Abbiamo i nomi, abbiamo i volti di quattro tra i molti artifici di ‘tutto il male del mondo’. Ci manca la loro elezione di domicilio per celebrare finalmente un processo in Italia. Chi, ad ogni gita al Cairo, dopo i selfie e i salamelecchi di rito, si riempie la bocca di ‘collaborazione’ dovrebbe spiegare agli italiani perché tornano a casa sempre a mani vuote, incapaci di farsi dare anche solo 4 indirizzi. Sarebbe più dignitoso tacere. A furia di stringere le mani (e vendere armi) ai dittatori si rischia di trovarsi insanguinate anche le proprie. E di offendere la nostra dignità.”

Questa aberrante ipocrisia, che fa comodo a molti al di qua ed al di là del mare, si fa forte della profonda innovazione che è avvenuta nel campo della procedura penale relativamente a quella modalità di svolgimento del processo in assenza dell’imputato che veniva chiamata “contumacia” e che oggi non esiste più, nemmeno nel nome.

Oggi esiste la possibilità di celebrare un processo “in assenza” (questa la definizione più felpata, che deriva dalla evoluzione normativa europea, tradotta dal Legislatore italiano in successivi step, fino all’intervento della riforma Cartabia che ha riscritto l’attuale 420 bis del codice di procedura penale) dell’imputato, ma le condizioni si sono fatte decisamente più stringenti e sono senz’altro orientate al superamento di ogni presunzione di conoscenza in capo all’imputato dell’inizio del processo.

Ora al contrario si presume, a maggior gloria dell’incomprimibile diritto di difesa, che l’imputato non sappia a meno che non sia stato certamente informato. Nel caso degli imputati per l’assassinio di Giulio questa “certezza” pare non si sia potuta documentare, nonostante tutto, e questo rischia appunto di far deragliare il processo.

A meno di fatti nuovi.

Tra le condizioni stringenti che il Giudice può considerare per ritenere legittimo procedere “in assenza” ovvero tra le circostanze che possono far ritenere al Giudice che gli imputati sappiano, pur non avendo ricevuto formale notifica, c’è quella di essere stati dichiarati latitanti.

E quando si diventa tecnicamente un “latitante”? Per esempio quando ci si sottrae ad una misura cautelare come l’arresto, quello che viene ordinato per evitare il pericolo di fuga o di manipolazione delle prove o di reiterazione del reato. Sul punto denuncio la mia ignoranza e chiedo: è stata mai richiesta la misura cautelare dell’arresto dei quattro da parte delle autorità italiane, nell’ambito della cooperazione giudiziaria tra i due Paesi?

La cronaca ci rammenta un episodio che seppure non sovrapponibile a questa situazione, la evoca a parti inverse: nell’agosto del 2018 un cittadino egiziano (che aveva anche cittadinanza italiana) Mohamed Mahsoub, niente meno che ex ministro del governo Morsi, proprio quello abbattuto dal golpe di Al Sisi, venne fermato in Sicilia in forza di un mandato di cattura spiccato dall’Egitto attraverso l’Interpol.

Va aggiunto che allora l’ex ministro venne rilasciato dalle autorità italiane e non consegnato a quelle egiziane (immagino con grande scorno di Al Sisi, che Morsi lo aveva cacciato col plauso occidentale). Non so che fine abbia fatto l’ex ministro.

E chissà che non c’entri pure questa storia col dramma di Giulio.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello

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