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La cattura di Messina Denaro. Un successo ma la lotta alla mafia continua

Gian Carlo Caselli il . Corruzione, Giustizia, Mafie, Politica, Società

Il fatto è noto. Il il 16 gennaio a Palermo viene arrestato dai Carabinieri del ROS coordinati dalla Procura di Palermo, Matteo Messina Denaro.

Capo indiscusso della mafia in provincia di Trapani, divenuto poi uno dei boss più potenti di tutta Cosa nostra, condannato più volte all’ergastolo, era uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo. Dopo l’arresto di Riina, Messina Denaro – insieme ai boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca – è stato tra i protagonisti della strategia degli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma.

È coinvolto nel sequestro (23 novembre 1993) del  tredicenne Giuseppe Di Matteo, che, dopo una prigionia di 779 giorni, fatta di maltrattanti e torture, venne strangolato e sciolto nell’acido. Un fatto orribile (gestito tutto nel trapanese, «feudo» di Messina Denaro) che sprofonda il genere umano negli abissi della crudeltà. Commesso sol perché Giuseppe era figlio di suo padre, Santino. Il pentito che il 23 ottobre 1993, in un lunghissimo interrogatorio da lui stesso richiestomi, mi aveva elencato e descritto (fu il disvelamento di una verità attesa da un Paese intero) fatti e protagonisti della strage di Capaci del 23 maggio 1992, alla quale lui stesso aveva materialmente partecipato.

Matteo Messina Denaro era latitante da trent’anni (più di Riina e meno di Provenzano).

Il nostro è un Paese, come dire, dialettico e amante della discussione. Perché su questo fatto si sono avute letture diverse e confliggenti.

A parte la disputa sulle manette, perché a Riina sì e a Messina Denaro no, la prima lettura (che personalmente condivido) è quella di un successo storico di cui si deve essere grati a chi lo ha eseguito. Contrapposta è la lettura (anche di persone ineccepibili come Salvatore Borsellino) secondo cui l’arresto è una sconfitta, in quanto avvenuto dopo ben 30 anni di serena latitanza.

Poi ci sono i dubbiosi, i prevenuti, gli ostili, i complottisti: tutti quelli che in modo o  nell’altro «sentono» puzza di marcio senza che neppure si affacci alla loro mente una possibile presunzione… di non colpevolezza degli «accusati». Infine ecco gli opportunisti, che attribuiscono con toni trionfalistici alla loro parte politica (di governo) il merito della cattura. Ben diversa da questa lettura è quella delle «opportunità», che si interroga se la cattura (soprattutto in caso di «pentimento» dell’arrestato)  possa servire per scoprire verità fin qui nascoste. Lo sperano soprattutto i familiari delle vittime, che di verità e giustizia ne hanno avuta fin qui piuttosto poca.

Oltre a perseguire i boss colpire la zona grigia

Dopo la cattura di Messina Denaro, si può parlare di fine di Cosa nostra?

L’arresto di Matteo Messina Denaro è l’ultimo anello di una lunga catena di latitanti individuati che parte trent’anni fa con la cattura di Riina e prosegue poi con altre catture «eccellenti»: Brusca, Bagarella, Aglieri, Ganci, i fratelli Graviano, Vito Vitale, Gaspare Spatuzza, Provenzano… per ricordare solo alcuni nomi dei tantissimi. È evidente che Cosa nostra stragista (quella dei Corleonesi) ha subito durissimi colpi: se non è finita, sembra in via di estinzione. Come una corazzata colpita più volte anche sotto la linea di galleggiamento che però non affonda. Perché?

Non  si deve dimenticare (mai!) che la mafia, tutte le mafie in verità, non sono «soltanto» una banda di gangster pericolosi. Esse sono anche e soprattutto un’organizzazione criminale strutturata, non una «semplice» emergenza. Vanno affrontate e colpite appunto come organizzazione, oltre che nelle singole componenti individuali.

Va anche detto che le associazioni di tipo mafioso non operano nel vuoto. Sono inserite in un sistema di rapporti di complicità che coinvolgono professionisti, imprenditori, amministratori pubblici, uomini politici, soggetti che affiancano i capi della mafia e formano la «borghesia mafiosa» o «zona grigia».

È proprio questa a costituire la vera spina dorsale del potere mafioso. Un esempio: il riciclaggio non sarebbe possibile senza il contributo ben ricompensato di esperti che sanno agire nelle banche e nel sistema finanziario sia nazionale che internazionale.

Il prefetto-generale Dalla Chiesa parlava di polipartito della mafia, a significare la compenetrazione dell’organizzazione criminale nella politica, nell’economia, nelle istituzioni, nell’informazione e nella società civile. Le «relazioni esterne» con pezzi dl mondo legale offrono alla mafia coperture e complicità, formando un intreccio di interessi e favori scambiati, sussumibili nei casi più gravi nel reato di «concorso esterno» in associazione mafiosa.

In sostanza, la mafia è forte non solo per la sua organizzazione interna ma anche per le alleanze e gli appoggi esterni, e sono questi che ne spiegano la resilienza nel tempo oltre a favorire le lunghe latitanze. Quindi, oltre a perseguire i boss occorre colpire la zona grigia più di quanto non sia fin qui avvenuto.

Occorre anche l’antimafia sociale e dei diritti

C’è poi un ulteriore fondamentale aspetto da considerare.

Pochissimi giorni prima di essere ucciso da Cosa nostra il 3 settembre 1982, a un giornalista che gli chiede come sconfiggere l’organizzazione criminale, Dalla Chiesa (lui, uomo votato alla repressione nel rispetto delle regole) non risponde «manette!», ma spiega che se i diritti fondamentali dei cittadini (lavoro, casa, assistenza sociale e sanitaria) non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che concedono a chi vogliono, rafforzando così il loro potere. In questo modo Dalla Chiesa afferma la necessità di affiancare all’antimafia «della repressione» (arresti, processi e condanne ai mafiosi o a chi li aiuta) anche l’antimafia «sociale o dei diritti».

Dopo Dalla Chiesa (absit iniuria…), Pietro Aglieri, un pezzo da novanta di Cosa Nostra, che ad un pm di Palermo, Alfonso Sabella, ebbe a dire: «Quando voi venite nelle nostre (sic) scuole a parlare di legalità e giustizia, i nostri (sic) ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni, chi trovano? A voi o a noi?».

Ecco, finché i cittadini incroceranno soltanto il volto «militare» dello Stato, e invece dello Stato troveranno soprattutto i mafiosi, finché saranno costretti ad essere sostanzialmente loro sudditi, la guerra alla mafia non sarà vinta. E sarà vano pretendere un duraturo, costante impegno della società civile.

Infine, quel che si è sempre evidenziato e va evidenziato ancora oggi è un chiaro limite culturale. Quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto in situazioni di emergenza, quando, cioè, la mafia mette in atto strategie sanguinarie; quello di trascurare i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie «attendiste», dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella capacità di condizionamento che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale.

Di qui un andamento discontinuo, una specie di stop and go, dell’attenzione al problema mafia e delle reazioni ad esso. In particolare nella politica (tutta, senza distinzioni di casacche) poco incline – al di là dei proclami di facciata – ad inserire la mafia in posizioni di rilievo della propria agenda.

* Fonte: Rocca n°03 – 1 febbraio 2023

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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