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Il caso Cospito davanti alla Corte costituzionale

Ignazio Juan Patrone * il . Criminalità, Diritti, Giustizia, Istituzioni

L’ordinanza della Corte d’assise d’appello di Torino. La disposizione impugnata. Il processo. I precedenti della Corte costituzionale.

L’ordinanza della Corte d’assise d’appello di Torino

Con ordinanza del 19 dicembre 2022 la Corte d’assise d’appello di Torino ha sollevato, per violazione degli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma e 27, terzo comma della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del quarto comma dell’art. 69 del codice penale, come risultante dalla modifica introdotta dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione, nota anche come legge ex-Cirielli) nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall’art. 285 cod. pen., non consente al giudice di ritenere prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

La Corte torinese è investita dell’esame di due fatti-reato avvenuti, il primo nella notte del 2 giugno 2006, quando due imputati, Alfredo Cospito e Anna Beniamino, piazzarono due ordigni ad alto potenziale nei pressi dell’ingresso della Scuola allievi carabinieri di Fossano: il secondo quando gli stessi imputati il 3 marzo del 2007 posero tre ordigni all’interno di cassonetti della spazzatura in un quartiere di Torino: in entrambi i casi gli ordigni esplosero ma senza arrecare danno alcuno alle persone.

Ai due imputati la Procura della Repubblica ha contestato il reato di cui all’art. 285 cod. pen. ma, sia in primo grado che in appello, i giudici del merito hanno ritenuto sussistere il delitto di strage comune ex art. 422 cod. pen. ed hanno condannato Cospito a vent’anni e Beniamino a 16 anni e sei mesi di reclusione.

Ha ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino e la Suprema Corte, con sentenza del 6 luglio 2022, n. 38184 del 2022, ha accolto le ragioni del ricorrente, ha quindi riqualificato il reato quale strage politica ex art. 285 cod. pen. ed ha rinviato gli atti alla Corte di assise d’appello per la determinazione della pena.

Il giudice del rinvio, ritenendo che nella specie ricorrano gli estremi del fatto di lieve entità di cui all’art. 311 cod. pen., ha sollevato questione di legittimità della disposizione sopra ricordata: Cospito infatti è recidivo nella forma aggravata e nei suoi confronti dovrebbe perciò essere possibile solo il giudizio di equivalenza e non quello di prevalenza della ricordata attenuante.

La disposizione impugnata 

Il decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito con modificazioni dalla legge 7 giugno 1974, n. 220 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), diede luogo ad una vera e propria piccola rivoluzione garantista nel diritto penale e processuale penale italiani: stabilì termini massimi per la “custodia preventiva”, introdusse la possibilità di concedere quella che allora si chiamava “libertà provvisoria” per tutti i reati, modificò in modo radicale la disciplina del reato continuato, rendendolo applicabile anche fra reati eterogenei. Tra le altre riforme introdotte, venne modificato anche l’art. 69, quarto comma, del cod. pen. prevedendo la possibilità di un giudizio di equivalenza o prevalenza per tutte le circostanze, comprese quelle inerenti alla persona del colpevole e rese gli aumenti di pena per la recidiva, anche aggravata, sempre facoltativi.

Con la riforma del 2005 si è voluto invece, attraverso la contemporanea modifica del quarto comma dell’art. 69 e del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., operare un vero e proprio ritorno al passato ed al testo originale del Codice del 1930, abbandonando il quadro delineato dalla riforma del 1974.

Il legislatore ha così creato un vero e proprio circuito penale più severo – sulla base di una circostanza del tutto svincolata dalla gravità del reato ma legata esclusivamente ai precedenti del colpevole – per il condannato che si trovi nella condizione di recidivo aggravato: in tal caso il giudice non può infatti che applicare la sanzione edittale nella sua interezza, salvo solo il giudizio di equivalenza, e mai di prevalenza, delle eventuali circostanze attenuanti.

Un meccanismo che inevitabilmente è andato ad incidere in senso negativo sul percorso rieducativo e trattamentale dei condannati e, non di rado, sullo stesso affollamento delle carceri, potendosi fondatamente ritenere – sia pure in modo empirico – che vi sia una correlazione tra durata complessiva delle pene inflitte e più lunghe permanenze negli istituti.

Nel caso oggi portato all’esame della Corte costituzionale le conseguenze delle modifiche in pejus introdotte dalla legge ex-Cirielli appaiono evidenti, come risulta dalla motivazione della stessa ordinanza di rimessione.

Il processo 

Alfredo Cospito e Anna Beniamino sono stati condannati dalla Corte di assise di Torino, con una sentenza poi confermata – per quello che qui rileva – in appello, per vari reati commessi nell’ambito di illecite attività di un gruppo anarchico. Tra i reati ascritti vi è, secondo le sentenze di merito, quello di strage ex art. 422 cod. pen. «per la predisposizione e la collocazione… di due ordigni esplosivi nei pressi della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, fatto avvenuto il 2 giugno del 2006» e di tre ordigni in cassonetti della spazzatura in Torino nel marzo del 2007.

Il Pubblico ministero – come sopra indicato – aveva contestato, sin dalla richiesta di rinvio a giudizio, il più grave reato di cui all’art. 285 cod. pen. (Devastazione, saccheggio e strage), che punisce con l’ergastolo (ma originariamente la pena era la morte) «chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso». La condotta è esattamente la stessa prevista dall’art. 422 cod. pen. per la strage “comune”, essendo il diverso e più grave reato qualificato solo dallo scopo che si prefigge l’autore.

Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino ha insistito nella originaria impostazione della Procura torinese ed ha ricorso sul punto per cassazione.

La Corte di legittimità, con la sentenza n. 38184 del 2022, ha ritenuto che il reato dovesse effettivamente essere meglio qualificato quale violazione dell’art. 285 cod. pen., la cd “strage politica” ed ha rinviato gli atti alla Corte d’assise d’appello di Torino per la determinazione della pena. Una sentenza, questa della Cassazione, estremamente severa dal momento che essa ha valutato il reato commesso da Cospito e Beniamino dal punto di vista del movente degli autori (certamente riprovevole ed inaccettabile) ma non sulla effettiva lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, essendo dubbio che attentati, gravi ma esauritisi senza vittime, ad una caserma dell’Arma e ad alcuni cassonetti della spazzatura possano aver costituito un serio attentato alla sicurezza stessa dello Stato.

L’art. 285 doc. pen., disposizione che non aveva precedenti nel Codice Zanardelli, si inquadra in un’impostazione, che è quella complessiva del Codice del 1930, che ha messo lo Stato al di sopra dei cittadini e dei loro diritti: come afferma con limpida chiarezza il Guardasigilli Rocco nella sua Relazione al Re, «… lo Stato è concepito come un organismo, ad un tempo, economico e sociale, politico e giuridico, etico e religioso»: ed ancora «a tali preminenti fini e interessi che sono i fini e interessi statuali debbono, dunque, venire subordinati, nel caso di eventuali conflitti, tutti gli altri interessi individuali o collettivi, propri dei singoli, delle categorie e delle classi che hanno, a differenza di quelli, carattere transeunte e non già immanente, come gli interessi concernenti la vita dello Stato» [Relazione al Re, Considerazioni generali, par. 1]. Una concezione, dunque, genuinamente autoritaria e fascista dei rapporti tra i consociati e lo Stato-Moloch, a cui tutto deve essere sacrificato.

Da questa concezione autoritaria e, in quanto tale, incompatibile coi precetti costituzionali, è nato un reato speciale, distinto esclusivamente quanto al fine propostosi dall’autore, dalla strage comune di cui all’art. 422 cod. pen. Sul punto la giurisprudenza di legittimità è chiara: si veda Cassazione penale sez. I – 18/11/1985, n. 4017: «Il delitto di strage politica si differenzia da quello di strage comune per la presenza nel fatto dell’ulteriore dolo – cosiddetto sub specifico o fine motivo – che va identificato con l’intento finalistico di recare offesa alla personalità dello Stato. Per il resto le due figure criminose sono identiche, sia nell’elemento materiale che in quello psicologico proprio della strage comune».

Ben diverse sono però le conseguenze, quoad poenam, tra i due reati: nel caso di strage comune, senza vittime, la pena prevista è quella non inferiore a quindici anni di reclusione, nella strage politica si ha solo l’ergastolo. Da lì la costruzione di un reato a consumazione anticipata, privo di evento vero e proprio e punito con la morte in base all’intento dell’autore. La Repubblica, a quasi cento anni dalla approvazione di quel Codice e dalla Relazione Rocco sopra citata, non ha saputo porre rimedio ad un tale mostro giuridico che peraltro (e per fortuna) non ha avuto molte applicazioni nella storia.

La sentenza della Cassazione prende le mosse da un remoto precedente, ed esattamente al principio di diritto stabilito da Sez. U, n. 1 del 1970, Kofler, Rv. 115780, «secondo il quale, il delitto di strage politica previsto dall’art. 285 c.p. si differenzia da quello di strage comune soltanto per la presenza, nel primo reato, dell’elemento psicologico subspecifico (fine motivo), che segna la connessione tra l’azione e l’intento finalistico di recare offesa alla personalità dello Stato, restando per il resto identiche le due figure delittuose nell’elemento obiettivo e nell’elemento subiettivo proprio del reato (dolo). In altri termini, la strage è reato comune (contro la pubblica incolumità) se l’agente non abbia avuto altro fine che quello di uccidere private persone; diventa reato speciale politico (contro la personalità dello Stato) se l’intento dell’agente sia stato che l’evento si ripercuota sulla compagine statale come lesione alla persona giuridica dello Stato». Principio ribadito, negli stessi termini, da successive decisioni, tra le quali, Sez. 1, n. 1538 del 15/11/1978, dep. 1979, Azzi, Rv. 141121; Sez. 1, n. 4017 del 18/11/1985, dep. 1986, Donati, Rv. 172769; Sez. 5, n. 11290 del 12/10/1993, Andolina, Rv. 196462.

In punto di analisi testuale della disposizione e dell’intento del legislatore (del ’30), nulla da eccepire: ci si domanda però come sia possibile che la lesione, o almeno un pericolo reale di lesione, del bene protetto rimanga estraneo alla fattispecie concreta con l’effetto, invero perverso, che viene punito con l’ergastolo sia colui che – al fine di attentare alla sicurezza dello Stato – mette un ordigno in un supermercato cagionando la morte di decine di persone, sia colui che mette un ordigno che non esplode o che esplodendo non uccide o ferisce nessuno.

Al fine di mitigare le conseguenze derivanti dalla qualificazione giuridica data dalla Cassazione, davanti al giudice del rinvio è stata sollevata questione circa l’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. In questo quadro di eccezionale severità sanzionatoria che, oltretutto, non differenzia (secondo una giurisprudenza consolidata) il delitto commesso da quello tentato, il riconoscimento della diminuente diventa infatti essenziale nella formulazione del giudizio, «… quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità». Come rileva la Corte costituzionale nella sentenza n. 143 del 2021, l’ipotesi della lieve entità «… rileva marcatamente sul piano dell’offensività, in quanto presuppone una valutazione riferita al fatto nel suo complesso, in rapporto all’evento di per sé considerato e alla natura, specie, mezzi, modalità della condotta».

La Corte di assise di appello remittente ha infatti rilevato come il reato attribuito ai due imputati, qualificato dalla Corte di cassazione in modo ormai irrevocabile quale violazione dell’art. 285 cod. pen. non consenta l’applicazione della attenuante ad uno dei due imputati in quanto recidivo aggravato: in questo modo il giudice, pur essendo convinto della non grave efficacia lesiva della condotta criminale posta in essere, non potrebbe irrogare altra pena che non sia l’ergastolo. Una pena questa che, inevitabilmente vista la natura terroristica del reato commesso dai due imputati, non potrebbe che essere ostativa ad una successiva concessione dei benefici penitenziari se non alle condizioni, che invero appaiono alquanto “limitate”, di cui al decreto-legge n. 162 del 2022, convertito, con modificazioni dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199. Un ergastolo che appare, dunque, orientato ad un “fine pena mai”.

I precedenti della Corte costituzionale 

L’art. 69, quarto comma, del Codice penale è già stato varie volte scrutinato, nel senso della sua illegittimità costituzionale, dalla Corte costituzionale la quale:

– con sentenza 5-15 novembre 2012, n. 251 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale».

– con sentenza 14-18 aprile 2014, n. 105 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, sempre come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.».

– con sentenza 14-18 aprile 2014, n. 106 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen».

– con sentenza 24 febbraio-7 aprile 2016, n. 74 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva reiterata prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen».

– con sentenza 21 giugno – 17 luglio 2017,n. 205, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.».

– con sentenza 7 – 24 aprile 2020, n. 73 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.».

– con sentenza 25 febbraio – 31 marzo 2021, n. 55 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.».

– con sentenza 26 maggio – 8 luglio 2021, n. 143 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630 cod. pen.- sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.».

Di particolare interesse anche la sentenza n. 192 del 2007: la Corte, investita da 13 ordinanze di diversi tribunali, rilevava in primo luogo che «le censure formulate dai giudici a quibus trovano … la loro comune premessa fondante nell’assunto per cui la norma denunciata avrebbe introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena – introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato».

La Corte, peraltro, rilevava che «L’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) e “la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le ultime, ordinanze n. 32 del 2007, n. 244, n. 64 e n. 34 del 2006) – l’inammissibilità delle questioni sollevate». Conformi le successive ordinanze n. 33 e n. 257 del 2008.

Particolarmente interessante, ai nostri fini, appare anche la sentenza n. 185 del 2015, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del quinto comma dell’art. 99 del cod. pen. Come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, in quanto «9.3.– La previsione di un obbligatorio aumento di pena legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun «accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – “sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (sentenza n. 192 del 2007)» (sentenza n. 183 del 2011), viola anche l’art. 27, terzo comma, Cost., che implica “un costante ‘principio di proporzione’ tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenza n. 341 del 1994)» (sentenza n. 251 del 2012). La preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.

A ben vedere dunque, il Legislatore del 2005, quando ha voluto grandemente diminuire il margine di apprezzamento dei giudici e la conseguente possibilità per gli stessi di adeguare la condanna al reato effettivamente commesso ed alla maggiore o minore gravità del medesimo, è andato a subire una vera e propria débacle davanti al Giudice delle leggi.

Ci permettiamo però di richiamare ancora la recente sentenza n. 143 del 2021, che ha affermato come l’attenuante della lieve entità del fatto (che in questo caso è prevista dall’art. 311 cod. pen.) abbia lo scopo di riequilibrare il regime sanzionatorio quando, per scelta legislativa, ci si trovi di fronte ad una pena edittale particolarmente severa e stabilita in misura fissa, come accade quanto all’art. 285 cod. pen. che prevede, sic et simpliciter, l’ergastolo (e prevedeva, nel testo originale, addirittura la pena di morte).

C’è ancora un altro proprio orientamento giurisprudenziale del quale la Corte potrà tenere conto ed è quello rappresentato dalla sentenza n. 236 del 2016 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27 della Costituzione, l’art. 567, secondo comma, del codice penale nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni. Ci pare in particolare fondamentale quanto affermato dalla citata sentenza, ove precisa che: «[l]addove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68 del 2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa.

In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina perciò una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 68 del 2012, che richiama le sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993)».

Ci pare che questa violazione degli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione possa attagliarsi perfettamente al caso di specie: la condanna all’ergastolo dell’imputato recidivo Cospito per un fatto che la Corte rimettente ritiene di minor gravità costituirebbe un vulnus alle norme costituzionali ed a criteri di giustizia per i quali la pena non può che essere proporzionata al fatto in concreto commesso.

L’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dalla legge del 2005, è stato il frutto di una visione marcatamente securitaria della legge penale: con esso si è creata una categoria, quella dei condannati con recidiva aggravata, destinati ad avere un trattamento sanzionatorio non commisurato alla effettiva lesione del bene protetto dalla norma penale, ma legato solo ai precedenti del colpevole. Crediamo che una dichiarazione di illegittimità come quella richiesta dalla Corte d’assise d’appello di Torino possa ulteriormente ridimensionare la portata della disposizione impugnata che, forse, dovrebbe essere dichiarata incostituzionale con un auspicabile ritorno alla riforma di cui alla legge del 1974.

L’Associazione Antigone intende presentare una propria memoria, quale amicus curiae, nel processo davanti alla Consulta per riaffermare le posizioni sopra esplicitate.

* Ufficio studi Associazione Antigone, già sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione

Fonte: Questione Giustizia

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Roma 13/2: “Il caso Cospito. Le ragioni di Antigone davanti alla Consulta”

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