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Il boss e gli studenti. I danni educativi del “complottismo”

Donatella D’Acapito il . Cultura, Diritti, Forze dell'Ordine, Giovani, Giustizia, Istituzioni, L'analisi, Società

Ero a scuola il 16 gennaio scorso quando è stato arrestato Matteo Messina Denaro. Magari non avrei dovuto prendere il cellulare per leggere la notizia e condividerla con i miei ragazzi, ma non me ne vorrà il Ministro Valditara se dico che la questione meritava uno strappo alla regola.

Faticavo a nascondere la gioia per quella che per me era una vittoria dello Stato. Soprattutto, faticavo pensando alla coincidenza per cui, appena un’ora prima, avevo ricordato a una delle mie classi l’arresto di Totò Riina avvenuto proprio nello stesso mese del 1993.

Incontrando quegli alunni per i corridoi, ci siamo trovati a sorridere insieme del fatto – loro sapevano a quel punto la valenza di quanto accaduto – e qualcuno ci ha scherzato su, dicendo come fosse bastato dire che mancava solo lui all’appello degli arresti eccellenti per “bruciarlo”.

Tutto molto bello, ma tutto troppo breve.

E non breve perché l’esultanza iniziale dovesse lasciare il passo all’analisi di come mai fosse stato possibile per Messina Denaro vivere tranquillamente – e per trent’anni – in una terra che, più delle altre, avrebbe dovuto volere la sua cattura. Non si era diventati seri perché ci si domandava di quali appoggi avesse goduto, istituzionali e non, e di cosa non avesse funzionato in passato.

No. Tutto troppo breve perché i ragazzi si sono trovati immersi nel brodo venefico del complottismo.

È bastata una considerazione buttata lì senza addurre spiegazioni per vedere che la maggior parte degli alunni si era adagiata su una verità di comodo.

“Ma davvero ci vogliamo raccontare le barzellette? Non lo hanno arrestato: ha deciso lui di farsi prendere”.

Una frase né urlata né detta a mezza bocca: solo parole proferite con sufficienza.

Non contesto le idee legittime che ognuno di noi ha sulla vicenda, ma mi chiedo se sia corretto che degli adulti – anche quando ottimi professionisti – diano un carico del genere a dei ragazzi senza prendersi il tempo (intanto loro!) per leggere e documentarsi. Capisco che far credere agli adolescenti di essere i depositari di verità che lo Stato non ci vuole dire conferisca un allure di mistero, da cui i giovani si sentono attratti e dalla quale noi difficilmente riusciamo a prendere le distanze. Ma giocare a fare quelli che “eh, ma tu non sai…” non è mai un bene, soprattutto quando si ha la responsabilità della formazioni delle generazioni future.

Come possiamo chiedere ai ragazzi di fare la loro parte se tanto è sempre tutto deciso da una entità superiore? Come possiamo chiedere loro di essere gli onesti cittadini di oggi e di domani, se poi il potere serve solo a fare gli interessi di pochi? E come possiamo chiedere loro di credere nelle istituzioni se non specifichiamo che il marcio c’è, ma non tutto è marcio?

Lavoriamo in contesti in cui si lotta per sminuire i miti criminali (e criminogeni) che i ragazzi hanno. Si fatica a far rispettare anche le regole elementari della convivenza civile. Molti ragazzi (ri)conoscono solo la legge del più forte e sono pronti a pagare prezzi altissimi per essere accettati da questo sistema. Non si possono allora consegnare loro dichiarazioni estemporanee, alimentando l’idea dell’impotenza della legge, senza nemmeno sollevare un interrogativo.

Diamo per buono che Matteo Messina Denaro si sia fatto prendere.

Seguendo questa affermazione, forse sarebbe bastato sottolineare che questa scelta, se veramente è stata una sua scelta, non gli permetterà –ad esempio- di morire come una leggenda, come la Primula Rossa di Cosa nostra. Nel corso degli anni sono stati arrestati Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella… Poteva segnare una differenza con gli altri. Poteva essere una via appetibile per chi aveva la calamita sul frigo che recitava “Il padrino sono io”.

E ancora: perché non spingere gli alunni a ragionare su cosa può volere in cambio dallo Stato un uomo che, comunque, è destinato al 41bis. Bastava sottolineare che un uomo d’onore del suo calibro si sia dovuto rivolgere allo Stato – a quello Stato che ha sempre combattuto – per ottenere ciò che lui desidera ardentemente. Potrebbero essere delle cure per la sua malattia, fatte in un contesto per lui più comodo; potrebbe essere la garanzia di un incontro con la figlia Lorenza… Qualsiasi cosa sia, è una cosa che arriva dal suo nemico e che la mafia non può dargli.

Oppure: “Il selfie scattato in clinica è stato un errore da principiante”. Ma non si è sempre detto che i boss, soprattutto se latitanti, si sentono intoccabili proprio a casa loro? E non si parla dell’arroganza e della sfrontatezza come caratteristiche dei mafiosi? Farsi una foto può essere stata una leggerezza voluta, però accompagniamo i giovani nell’esercizio del dubbio.

Ma c’è una cosa che inquieta maggiormente: perché gli adulti faticano a credere nelle capacità delle istituzioni? Perché ci si rassegna a pensare che siano loro – i poteri occulti, le mafie, i servizi deviati – a tirare le fila delle nostre vite? Perché questa idea si insinua in una scuola secondaria superiore?

Non so quanti possano davvero dire di conoscere tutti i risvolti della vicenda, ma il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros, è di sicuro fra questi. Intervistato da Gianluca Di Feo per la Repubblica, il comandante ha detto: “Le generalizzazioni non aiutano le inchieste”.

Allo stesso modo, generalizzazioni e semplificazioni non aiutano i nostri ragazzi a sviluppare una sana coscienza critica.

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