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Gli accordi europei in tema di immigrazione

Franco Roberti il . Diritti, Internazionale, Istituzioni, Migranti, Politica

Sommario: 1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione – 2. La gestione europea dell’immigrazione – 3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto – 4. Le ultime iniziative della Commissione europea – 5. Conclusioni. 

1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione

A un quadro politico e normativo dell’Unione europea sempre più polarizzato sugli aspetti logistici ed organizzativi, su come gestire e possibilmente fermare l’arrivo di migranti irregolari e dei richiedenti asilo, fa da contraltare una narrazione pubblica e mediatica in cui la distinzione tra richiedenti asilo, rifugiati, irregolari, migranti economici o climatici, è liquidata per far posto all’immagine di una massa indistinta, simile a un enorme tsunami, pronta a varcare le frontiere.

Questa situazione si è determinata anche per la sperimentata difficoltà di adottare una legislazione migratoria comune, dato che le decisioni dell’Unione europea nel settore dell’immigrazione, non supportate da una specifica ed esclusiva competenza, necessitano dell’unanimità dei Paesi membri. Ne consegue che, fintanto sarà richiesto il voto unanime, il tema dell’immigrazione sarà condizionato delle opportunità politiche del momento.

D’altronde, basta dare un’occhiata ai numerosi tentativi di legiferare a livello europeo per rendersi conto che finora i governi hanno badato solo ai propri interessi nazionali di pura convenienza politica, indifferenti al dettato dell’articolo 79 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che chiama gli Stati Membri ad adottare “una politica comune sull’immigrazione per assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi, la prevenzione e il contrasto dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani”.

Ne consegue che i flussi migratori, da fenomeno demografico causato da fattori sociali, economici, ambientali e ultimo, ma non per importanza, da drammatiche situazioni di guerre endemiche, sono affrontati come problema di sicurezza e di gestione delle frontiere, diventate ormai barriere protettive. Tale spostamento ha provocato una narrativa politica e mediatica di natura prettamente securitaria a vantaggio delle formazioni politiche più propense a cavalcare le paure, il risentimento, la rabbia sociale, il rifiuto dello straniero, il dubbio sul valore dell’ospitalità a favore di un atteggiamento difensivo delle proprie rassicuranti radici culturali. Tutti elementi che trovano nelle incertezze normative a livello comunitario in materia di accoglienza e redistribuzione il terreno propizio nel quale si sedimenta e si articola la giustificazione delle scelte egoistiche dei Paesi membri dell’Unione, preoccupati in materia di immigrazione essenzialmente da valutazioni e tornaconti nazionali.

Si può osservare tale dinamica nel dettaglio. I Paesi del nord Europa, nonostante frequenti richiami rivolti al rispetto dei diritti fondamentali e al principio di accoglienza a fronte di un numero relativamente basso di arrivo di migranti, cadono in contraddizione tra un discorso pubblico improntato al valore della solidarietà e un esercizio del potere dei governi quasi sempre orientato alla ricerca di vantaggi politici di rendita del consenso.

Questa posizione, seppur distante da quella tipica dei Paesi del Gruppo di Visegrád, caratterizzata da una totale chiusura sul principio di solidarietà comunitaria, rigettando di fatto il criterio delle quote di redistribuzione, è diventata per quei Paesi occasione per denunciare non solo la falsa coscienza tipica di chi predica bene ma agisce male, ma anche un’argomentazione per rimandare al mittente il mito di un’Europa unita come falso.

Ed è proprio da questa frattura, prodotta dall’incapacità di trovare un accordo comune che regoli armonicamente le diverse sensibilità nazionali in materia di immigrazione, che nasce l’attuale paralisi politica e legislativa dell’UE, nonché la difficoltà di spronare i Paesi più riottosi ad assumersi le proprie responsabilità. Il che significa che i Paesi di primo ingresso, quelli del Mediterraneo, dovrebbero continuare a sbrigarsela da soli ed affrontare il dramma quotidiano degli arrivi, che mettono a dura prova le strutture di accoglienza, senza la certezza giuridica di poter contare su un aiuto da parte degli altri membri dell’Unione, trincerati dietro le norme del Regolamento di Dublino.

2. La gestione europea dell’immigrazione        

A partire dal giugno 1990, con la convenzione firmata a Dublino da 12 Stati membri UE (tra cui l’Italia), emergeva la necessità di regolamentare, mediante un quadro normativo comune, i flussi migratori che interessavano l’Unione.

Tale convenzione rappresentava il primo accordo intergovernativo nel definire le regole europee sul diritto d’asilo. Tra i diversi obiettivi, il primo si incentrava sul carattere umanitario tendendo ad assicurare a ciascuna persona protezione e diritto d’asilo all’interno, almeno, di uno Stato Membro. Il tutto per evitare il fenomeno dei cosiddetti “rifugiati in orbita” ovvero cittadini stranieri rinviati da uno Stato all’altro, senza aver nemmeno ricevuto una valutazione della domanda d’asilo. Altro obiettivo prefissato era quello di contrastare le “domande multiple” ovvero la condizione nella quale il richiedente asilo, presentando la domanda in un determinato paese, in caso di rifiuto del riconoscimento, potesse rivolgersi senza alcun limite agli altri Stati Membri.

Da qui la decisione di avvalersi del principio del primo Paese di arrivo. Quest’ultimo, quale Paese di primo approdo, si assumeva tutte le responsabilità, nonché gli oneri, relativi alla gestione delle richieste d’asilo e del sostentamento dei cittadini stranieri. Nel 2003, la convenzione venne sostituita dal Regolamento di Dublino II. La modifica più sostanziale riguardava l’implementazione nel diritto comunitario, sotto forma di regolamento, delle previsioni originali della precedente Convenzione. La variazione era tuttavia formale, non modificando i criteri di definizione dei Paesi coinvolti direttamente in prima battuta che restano, ancora, quelli di frontiera.

Il 1 gennaio 2014 entra in vigore il regolamento Dublino III che, pur con dei punti di continuità rispetto al precedente, presenta alcune novità. Tra quest’ultime emergono le tematiche relative all’ampliamento dei termini per il ricongiungimento familiare, alla possibilità di fare ricorso contro un ordine di trasferimento e alla maggiore tutela dei minori. Ancora, il nuovo regolamento incentiva l’utilizzo del database Eurodac (European dactyloscopie), mediante il quale raccogliere e schedare i dati sensibili dei cittadini stranieri. Tali misure correttive non risolvono le difficoltà affrontate dagli Stati frontalieri, mancando un approccio comune e solidale per la risoluzione del fenomeno in crescita esponenziale che raggiunge il suo acme nel 2015.

L’acuirsi della crisi migratoria avvenuta nel 2015 ha sollecitato l’Unione europea a muoversi nuovamente per cercare di stabilire nuovi criteri di gestione del fenomeno al fine di uniformare le posizioni, ancora contrastanti, dei diversi Stati Membri. Questi ultimi sono esortati a rispettare il principio della solidarietà, seppure in maniera non del tutto chiara, e, per la prima volta, è posta al centro dell’attenzione la tutela dei diritti dei migranti, con particolari indicazioni sulle linee da adottare nei confronti dei richiedenti asilo. Il nuovo tentativo si risolve in un totale fallimento: la mancata approvazione, nel 2017, della riforma del regolamento Dublino III: “Abbiamo provato a ribaltare quella logica ipocrita e a sostituirla con un principio che desse sostanza a quelli che sono scritti nei trattati e cioè: la solidarietà e la equa condivisione di responsabilità”. [1]

Eppure nel 2016, a seguito della proposta legislativa presentata dalla Commissione Europea, finalizzata alla riforma del Regolamento di Dublino, il Parlamento Europeo si è riunito dando l’avvio alla discussione e all’ardua negoziazione sul tema.

Nonostante nel corso di quest’ultima vi sia stata l’approvazione del testo in prima lettura (ottobre 2017) e la successiva delibera in plenaria con 390 voti a favore, 175 contrari e 44 astenuti, l’iter ha subito una drastica battuta d’arresto, fermandosi alla fase successiva. Tra le cause la mancanza di una visione comune da parte degli Stati Membri i quali manifestano, in sede di Consiglio Europeo, posizioni contrastanti, esplicativa, tra tutte, la visione dei Paesi Visegrád

La mancanza di coesione comunitaria è stigmatizzata nelle parole di Elly Schlein:

“E devo dire che è stato un negoziato durissimo, ci abbiamo lavorato per due anni per riuscire a costruire una maggioranza storica che, nel novembre del 2017, con il sì di quasi due terzi del Parlamento europeo ha ribaltato quella logica, cancellando il criterio del “primo Paese di accesso” e sostituendolo con un meccanismo “permanente automatico di ricollocamento”, che obblighi tutti i Paesi europei a fare la propria parte sull’accoglienza con un sistema di “quote” obbligatorio. Quote stabilite in modo oggettivo sui criteri del PIL e della popolazione di ogni Stato […] Questo ve lo racconto perché trovo vergognoso che, mentre il Parlamento europeo faceva questo sforzo, i governi che siedono al Consiglio Europeo non sono riusciti a trovare un briciolo di accordo su questa riforma. Eppure quelle che siedono al Consiglio sono le stesse famiglie politiche di quelle che siedono al Parlamento. Le medesime nazionalità. E com’è possibile che al Parlamento si trovi una soluzione davvero europea condivisa e invece al Consiglio si continui a trovare, balbettando, delle soluzioni ad hoc che non danno una risposta strutturale e che lasciano bloccate vergognosamente le persone in mezzo al mare?”.[2]

Di fronte alle politiche di chiusura nei confronti di Paesi terzi, la Corte di Giustizia dell´Unione europea è intervenuta più volte allo scopo di contemperare il diritto degli Stati Membri con la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo migrante. Ciò è stato possibile perché il migrante ha acquisito gradualmente un nucleo minimo di diritti con l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – la Carta di Nizza – che, dopo il Trattato di Lisbona, ha uguale valore giuridico dei Trattati istitutivi dell’Unione. Il che comporta che i diritti in essa riconosciuti sono a tutti gli effetti giuridicamente vincolanti, pure nel settore delle politiche migratorie e, pertanto, inderogabili per le Istituzioni europee e la cui osservanza da parte degli Stati membri è soggetta al giudizio della Corte di giustizia.

Sul tema della migrazione è emblematico l’articolo 19, primo comma, della Carta, che vieta le espulsioni collettive ed ogni respingimento alla frontiera e allontanamento coercitivo dal territorio senza prima aver effettuato un esame individuale del soggetto richiedente asilo.

Qui giova ricordare alcune recenti pronunce delle Corte di Giustizia dell’Unione europea. Proprio l’articolo 19, secondo comma, che vieta l’allontanamento, l’espulsione o l’estradizione verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposti alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, è stato evocato dalla Corte  per dichiarare che le norme della ”direttiva rimpatri” 2008/11, a cui la legislazione nazionale ha l’obbligo di riferirsi in materia di rimpatrio, devono essere interpretate alla luce della Carta dei diritti fondamentali. Cosi nelle cause riunite C391/16, C77/17 e C78/17, dove la Corte ha deciso di non revocare lo statuto di rifugiato a tre cittadini extracomunitari colpevoli di un reato nonostante il parere contrario dei tribunali nazionali. La sentenza recita che “fintanto che il cittadino di un Paese extra-UE o un apolide abbia fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese d’origine o di residenza, questa persona deve essere qualificata come rifugiato indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato sia stato formalmente riconosciuto”. È palese il riferimento al principio che nessun cittadino può essere rimpatriato verso un paese dove rischia la sua vita o la sua libertà o di andare incontro a tortura e trattamenti inumani.

Va pure richiamata la sentenza nella causa C-808/18 Commissione contro Ungheria, nella quale si “dichiara che l’Ungheria è venuta meno al proprio obbligo di garantire un accesso effettivo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale 8, in quanto i cittadini di Paesi terzi che desideravano accedere, a partire dalla frontiera serbo-ungherese, a tale procedura si sono trovati di fronte, di fatto, alla quasi impossibilità di presentare la loro domanda e che l’obbligo imposto ai richiedenti protezione internazionale di rimanere in una zona di transito durante l’intera procedura di esame della loro domanda costituisce un trattenimento ai sensi della direttiva «accoglienza”.   Considerazioni che fanno sì che venga respinto “l’argomento dell’Ungheria secondo cui la crisi migratoria avrebbe giustificato una deroga a talune norme delle direttive «procedure» e “accoglienza”, al fine di mantenere l’ordine pubblico e di salvaguardare la sicurezza interna, conformemente all’articolo 72 TFUE”. Infine per condannare l’Ungheria nel suo essere “venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva «rimpatrio», in quanto la normativa ungherese consente di allontanare i cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio è irregolare senza rispettare preventivamente le procedure e le garanzie previste da tale direttiva.

Va infine ricordata la sentenza della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-653/15 e C-647/15, di rigetto dei ricorsi della Slovacchia e dell’Ungheria contro il Consiglio per il meccanismo provvisorio di ricollocazione obbligatoria dei richiedenti asilo. A giudizio della Corte “l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE consente alle istituzioni dell’Unione di adottare tutte le misure temporanee necessarie a rispondere in modo effettivo e rapido ad una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di migranti” I giudici precisano altresì che, “poiché la decisione impugnata costituisce un atto non legislativo, la sua adozione non era assoggettata ai requisiti riguardanti la partecipazione dei parlamenti nazionali e il carattere pubblico delle deliberazioni e dei voti in seno al Consiglio”. Oltre a ciòla Corte osserva “che il Consiglio non era tenuto ad adottare la decisione impugnata all’unanimità”. La Corte ritiene altresì “che il meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata non costituisce una misura manifestamente inadatta a contribuire al raggiungimento del suo obiettivo, ossia aiutare la Grecia e l’Italia ad affrontare le conseguenze della crisi migratoria del 2015”. In conclusione, la Corte osserva “che il numero poco elevato di ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della decisione impugnata può spiegarsi con un insieme di elementi che il Consiglio non poteva prevedere al momento dell’adozione di quest’ultima, tra cui, segnatamente, la mancanza di cooperazione di alcuni Stati membri”.  

3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto

Con tali premesse, il 23 settembre 2020 la Commissione Europea ha proposto il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, presentato come “un pacchetto di proposte normative e di altre iniziative per un nuovo corso in materia di politica di migrazione e di protezione internazionale.” [3] Il documento, ponendosi in continuità e, talvolta, in discontinuità con il regolamento preesistente, mira al disegno di una strategia organica e fattuale che sia, al contempo, umanitaria e sinergica. In primis, si cerca di integrare le laconiche norme relative ai procedimenti di asilo e rimpatrio, stabilendo, altresì, una serie di misure da applicare in caso di flussi migratori irregolari straordinari; in secondo luogo ci si riferisce al consolidamento di nuove relazioni solidali da istituire tra gli Stati Membri di frontiera, più colpiti dal fenomeno, ed il resto dell’Unione. Ancora si spinge verso la creazione di rapporti collaborativi tra l’Unione e i Paesi Terzi di origine e/o transito. Il Patto regolamenta, altresì, le procedure e le misure di sostegno in termini di ricollocamento e rimpatrio, aggiornamento del quadro giuridico di Eurodac, procedura di screening, asilo e reinsediamento.

Le singole azioni citate, dovrebbero essere svolte con estrema flessibilità e sensibilità, valutando la specificità e le necessità di ciascun individuo, oltre le condizioni che lo Stato Membro interessato si troverebbe ad affrontare.

Nonostante l’aggiornamento e l’integrazione dei criteri di gestione del fenomeno, il disegno si presenta ancora incompleto e disorganico e le problematiche preesistenti non hanno trovato concreta risoluzione.

Tra le criticità che emergono da una puntuale analisi della proposta, all’esame del Parlamento, le più significative riguardano la gestione delle frontiere, la ripartizione asimmetrica degli oneri tra gli Stati Membri e la contrazione dei diritti dei soggetti migranti.

Partendo dal primo punto critico, bisogna sottolineare che l’iter proposto per la gestione delle frontiere si pone, ancora una volta, a scapito dei cosiddetti Paesi di primo approdo. Infatti, la procedura dello screening, a partire dalla fase di identificazione e registrazione ed ancora dei controlli sanitari e di sicurezza, fino alla prima scrematura, grava, nella sua totalità, su di essi. Inoltre la formalizzazione dei luoghi deputati allo svolgimento di dette operazioni, i cosiddetti hotspot, si pone ai limiti della legalità. Nello specifico, il sistema hotspot, nato in risposta alla crisi migratoria del 2015, nella sua mera trasformazione da strumento eccezionale a strumento formale legale, esplicita tutti i suoi punti di debolezza soprattutto in termini di violazione dei diritti umani e di lesione del diritto di difesa, che vengono trascurati in tutte le differenti fasi della procedura in esame.

I cittadini stranieri, nell’attesa dell’esito del procedimento di screening, sono privati della libertà e della parola, non avendo la possibilità di esprimere preferenza alcuna e, talvolta, costretti a subire passivamente il respingimento o l’invio in altro Stato straniero.

Il secondo punto critico riguarda il sistema di ripartizione asimmetrico degli oneri relativi alla gestione del fenomeno migratorio tra i Paesi UE, che si pone a svantaggio degli Stati Membri frontalieri. Tale squilibrio viola il “principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.” [4]  Nel tentativo di aggirare il problema, la Commissione ha proposto un innovativo meccanismo collaborativo incentrato sul sistema della sponsorizzazione. Lo Stato, definito sponsor, si adopera al fine di sostenere logisticamente e finanziariamente i rimpatri degli altri Stati entro un limite temporale di otto mesi (quattro nei periodi di crisi), decorsi i quali lo stesso Stato sarà obbligato ad accogliere nel proprio territorio i migranti per accompagnarli fino al momento del rimpatrio.

La metodologia proposta si dimostra però inefficace in quanto, più che risolvere le problematiche relative alla questione dell’asilo, appare come un espediente per raggiungere un maggiore accordo tra gli Stati Membri. Inoltre, questa sorta di “flessibilità”, fa si che il processo non trovi poi concreta attualizzazione sia per il carattere discrezionale dei supporti forniti dai cosiddetti sponsor che per la differenza, tra i Paesi frontalieri e quelli di Visegrád, delle relazioni e degli accordi consolidati con i Paesi Terzi. Esplicativo il caso italiano che, insieme alla Spagna e alla Francia, gestisce più del 70% [5] degli accordi di riammissione con i Paesi africani.

Il terzo ed ultimo punto critico interessa la contrazione dei diritti dei richiedenti asilo. Il Patto sembra non considerare il fenomeno dal punto di vista del migrante, preservando l’atavico approccio securitario incentrato sulle misure restrittive e di respingimento, più che sulle nuove potenziali procedure di asilo.

In detta direzione infatti, già a partire dalla fase dello screening, i cittadini stranieri sono soggetti a misure di trattenimento con conseguente privazione della libertà. Le procedure di controllo, inoltre, rischiano di sfociare nella “razzializzazione” del diritto di asilo, prediligendo alcune nazionalità piuttosto che altre, senza effettuare analisi puntuali, attente alle necessità del singolo individuo. Quest’ultimo viene, altresì, privato della possibilità di manifestare i propri bisogni e di indicare una preferenza sullo Stato Membro di destinazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, le dinamiche di trasferimento assumono un carattere coercitivo a scapito, in primis, dei diritti umani e, a seguire, del margine di successo delle operazioni, con relativo dispendio di fondi, energie e risorse.

4. Le ultime iniziative della Commissione europea

La situazione di stallo nella trattazione parlamentare del Patto ha indotto la Commissione a rivedere l’approccio e la metodologia fino ad ora utilizzate. Questa la considerazione alla base dei recenti “action plans” proposti (nella fattispecie due), concernenti, rispettivamente, la rotta del Mediterraneo centrale e quella dei Paesi balcanici.

Il piano che interessa la prima area d’intervento individuata, ovvero il Mediterraneo centrale, è costituito da 20 misure il cui obiettivo è quello di arginare l’emergenza migratoria, soprattutto quella a carattere irregolare, fornendo linee guida in termini di ricerca e soccorso, sicurezza e solidarietà. Tre i pilastri fondanti il piano d’azione: lo sviluppo di una collaborazione sinergica tra i Paesi dell’Unione, i Paesi partner e le organizzazioni internazionali, il miglioramento del cosiddetto meccanismo di solidarietà volontaria nel rispetto di una visione comune e la promozione di una nuova politica di ricerca e soccorso. In tal senso, la linea d’azione proposta dalla Commissione, in un settore difficile da legiferare vista la competenza nazionale nelle rispettive zone di ricerca e salvataggio, è una maggiore cooperazione tra Stati membri, Paesi costieri e le Ong. Un impegno collaborativo viene richiesto ai Paesi membri anche con l’Organizzazione marittima internazionale (IMO), per porre le basi su un possibile codice di condotta europeo inerente le operazioni di ricerca e salvataggio.

Il piano d’azione previsto a sostegno degli Stati Membri che si trovano a gestire la crescente pressione migratoria che interessa l’area dei Balcani occidentali, d’altro canto, mira ad incentivare la cooperazione tra gli stessi e i relativi partner extra-UE. Anche per quest’ultimo sono previste 20 misure operative, raggruppate in cinque macro-categorie d’azione. Nello specifico: la prima riguarda la gestione delle frontiere lungo la rotta al fine di ridurre il traffico di migranti. In tal senso, significativi sono gli accordi extraeuropei raggiunti con Albania, Montenegro Serbia e Macedonia Nord i quali consentono dispiegamenti sul territorio da parte dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (FRONTEX).

La seconda linea d’azione mira ad accelerare le procedure di asilo e sostenere la capacità di accoglienza nei confini con i partner balcanici garantendo alloggi ed esigenze di base attraverso lo strumento di assistenza preadesione (IPA).

Terzo elemento è il potenziamento cooperativo nella lotta al traffico dei migranti lungo la rotta balcanica. Tale obiettivo è perseguibile attraverso la task-force operativa di Europol – recentemente rafforzata – al confine serbo-ungherese ed il programma regionale IPA, da 30 milioni di euro, per favorire lo svolgersi di indagini, procedimenti giudiziari e condanne da parte delle autorità giudiziarie dei Paesi balcanici, in stretta collaborazione con le agenzie europee.

Il rafforzamento della cooperazione per la riammissione e i rimpatri è il quarto elemento del piano d’azione che prevede un impegno maggiore da parte dell’Unione nell’aumentare i ritorni di persone direttamente dai Paesi dei Balcani Occidentali. A tal fine è previsto, entro il 2023 un nuovo programma che comprenda i rimpatri volontari e non volontari dalla regione, per potenziare la cooperazione e il coordinamento sul piano operativo tra l’UE, i Balcani occidentali e i Paesi di origine.

L’ultima categoria di azione mira all’allineamento della politica dei visti da parte dei Balcani. A quest’ultimi si richiede un rapido adeguamento al quadro normativo europeo in materia di visti per il corretto funzionamento del regime di esenzione.

Tutte le indicazioni citate rientrano, tra l’altro, nel più ampio progetto inclusivo dell’Unione a seguito, altresì, dei continui sforzi dei Paesi Balcanici per allinearsi alle norme comunitarie.

Il quadro giuridico europeo nel settore della migrazione continua, dunque, nei fatti a gravitare su tre strumenti: contenere/bloccare, rimpatriare, esternalizzare le frontiere, che sono il braccio armato della questione della sicurezza, che orientano e plasmano le norme vigenti in materia di immigrazione.

Come già osservato, le nuove proposte non sembrano apportare alcun cambio sostanziale: gli interventi previsti riproducono le scelte e gli strumenti che erano alla base del Regolamento di Dublino, tra cui i centri di prima accoglienza, la chiusura delle frontiere nonché un processo di esternalizzazione della responsabilità consegnata ai Paesi terzi, senza tener conto adeguatamente dello stato e della tutela dei diritti umani in tali Paesi. Resta non solo in vigore ma anche consolidato il principio dello Stato di primo ingresso, contestato dai Paesi con frontiere esterne come l’Italia, la Grecia, la Spagna. Pare del tutto carente il meccanismo di solidarietà per accogliere e ridistribuire gli immigranti, così tanto ventilato e sbandierato nelle conferenze stampa, quanto più escluso, depennato o al massimo infarcito di vaghi richiami ai valori fondanti dell’Unione europea nelle dichiarazioni comuni dei ministri dei Paesi membri.

Le norme previste nel nuovo Patto appaiono ancora prive di misure capaci di fornire risposte unitarie ai flussi e alle rotte migratorie. In effetti, restano responsabili della stragrande maggioranza degli arrivi solo alcuni Paesi: situazione non equa e nemmeno sostenibile per i primi Paesi di accoglienza, dato che il principio della solidarietà verrebbe applicato solo in via eccezionale. Sorprendente marcia indietro rispetto al già citato articolo 80 del TFUE che prevede che “tutte le politiche siano governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri”.

Persino il nuovo criterio della sponsorizzazione dei rimpatri rischia di tradursi in una messa tra parentesi della solidarietà a favore invece di una politica dove alcuni Stati assumono le proprie responsabilità mentre altri voltano le spalle. Le divisioni dei Paesi membri tengono in scacco l’intero pacchetto di proposte ancor lontano dall’essere adottato e che, purtroppo, continua a poggiare su due pilastri: bloccare alle frontiere e rimpatriare appena possibile. Infatti, gli accordi di partenariato che traducono la pratica di esternalizzazione si riducono in sostanza ad esercitare pressioni di ogni genere per obbligare i Paesi d’origine e di transito a fermare i migranti diretti in Europa, attraverso la creazione di campi di respingimento alle frontiere. Su queste misure di filtro, volte a contrastare la mobilità delle persone, esiste un consenso generale, mentre manca essenzialmente un’intesa su come normare un sistema comune di asilo, rinviando le decisioni in materia alla volontà dei singoli Stati.

In sintesi, l’azione europea segue la strategia di spostare le frontiere verso l’esterno delegando a Stati terzi il compito di contenere e trattenere i migranti, disinteressandosi in buona parte, se non lanciando appelli alla salvaguardia dei diritti e delle condizioni di vita in cui si trovano i migranti nei campi di segregazione libici, nelle zone franche dei Paesi balcanici, nelle tendopoli delle isole greche, nei dormitori in Turchia. Tale dislocamento dello spazio geografico dei confini europei segue tre rotte: quella orientale-mediterranea, grazie agli accordi con la Turchia e allo scudo protettivo creato nelle isole greche; la rotta balcanica organizzata mediante controlli ferrei di polizia alle frontiere; la rotta africana pianificata attraverso accordi di partenariato infarciti di aiuti economici, convertendo i Paesi africani in territori presidiati militarmente anche da contingenti militari europei. In sostanza, la migrazione è collocata sotto l’egida della politica di sicurezza e di difesa comune.

Altro elemento da considerare è rappresentato dal fatto che il nuovo patto sulla migrazione lascerebbe da parte i 4 / 5 milioni di persone che già si trovano in situazione di irregolarità nei Paesi europei costretti a restare nell’ombra, dato che l’Europa non fa altro che sigillare le frontiere.

Infine, l’ultimo aspetto lasciato in sospeso dal nuovo patto è il tema della migrazione legale: materia su cui gli stati membri mantengono ferma la volontà decisionale indipendente, pur sapendo che l’assenza di uniformità legislativa dell’Unione insieme alla scarsa possibilità di ingresso per motivi economici dà forza alla migrazione irregolare.

5. Conclusioni

La strategia delineata dal Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo e dai più recenti actions plans, per quanto innovativa negli intenti, si dimostra ancora legata al precedente regolamento (Dublino III), soprattutto sul piano fattuale. Emerge, innanzitutto, la volontà di contrastare il fenomeno migratorio più che di stabilire un iter organico e omogeneo cui gli Stati Membri possano fare riferimento. A ciò si aggiunge il coinvolgimento parziale degli Stati UE, spesso in contrasto tra di loro, che adagiandosi sull’ambiguità dei differenti punti previsti e sul principio di solidarietà flessibile, partecipano con interventi per lo più economici e amministrativi, a carattere emergenziale. Di conseguenza, l’onere assistenziale continua a ricadere sui Paesi frontalieri.

Le proposte presentate, in conclusione, non risolvono le problematiche preesistenti come l’assenza di collaborazione sinergica tra gli Stati UE, la mancanza di solidali accordi con i Paesi Terzi che vivono in stato di emergenza e la sistematica violazione dei diritti umani.

Tutto ciò appare incompatibile con i valori e i principi su cui si fonda l’Unione europea e che ne dovrebbero garantire la sopravvivenza in un quadro geopolitico in rapido cambiamento.

***

Note

[1] E. Schlein, relatrice-ombra della riforma, in Migranti la gestione dei flussi migratori: verso la revisione del trattato di Dublino, a cura di F. Roberti, Guida ed. 2019.

[2] E. Schlein, op. loc. cit.

[3] https://temi.camera.it/leg19DIL/post/19_nuovo-patto-sulla-migrazione-e-l-asilo.html

[4] ART 80 TFUE

[5] Cfr. P. Cassarino, Readmission, Visa Policy and the “Return Sponsorship” Puzzle in the New Pact on Migration and Asylum, in ADiM Blog, 30 novembre 2020.

Fonte: Giustizia Insieme

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