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Pochi gli educatori dietro le sbarre. “Per i detenuti percorsi più difficili”

Luca Cereda il . Criminalità, Diritti, Giustizia, Lavoro, SIcurezza, Società

In carcere dobbiamo diventare bravi detenuti o bravi cittadini? Questa domanda non è oziosa e chi è recluso ce la pone spesso. La risposta sta tutta nel tipo di percorso rieducativo che costruiamo con loro”, dice Ornella Favero, fondatrice e direttrice della rivista “Ristretti Orizzonti” e guida della Conferenza nazionale volontariato giustizia.

Nell’anno del drammatico record di suicidi in carcere, la speranza è che il 2022 possa essere ricordato anche per le novità sulla creazione dei percorsi rieducativi istituite dal Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria grazie alla circolare “Valorizzazione del ruolo e della figura professionale del Funzionario giuridico pedagogico”.

“Funzionario giuridico pedagogico è infatti il nome tecnico che delinea la figura dell’educatore, un ruolo “entrato” in carcere con una riforma nel 1975 per attuare il principio costituzionale della pena. Il nostro compito principale riguarda la programmazione dei percorsi rieducativi che realizziamo insieme al detenuto”, spiega Roberto Bezzi, direttore dell’area educativa della casa di reclusione di Milano-Bollate, e co-autore del libro “Educare in carcere”. Quella dell’educatore è quindi la figura cruciale per la buona riuscita della rieducazione della pena.

Eppure il ministero della Giustizia prevede che negli istituti di pena siano attivi 37.445 agenti di polizia penitenziaria, 4.609 figure amministrative e soltanto 908 funzionari giuridico pedagogici. Attualmente nei 190 penitenziari italiani tutte le figure professionali previste sono sotto organico: gli agenti impiegati secondo l’ultimo rapporto del Dap sono 31.680, gli addetti all’area amministrativa 2.919 (-1.150) e gli educatori 681 (-227).

Il rapporto tra il numero totale dei detenuti e il numero totale degli agenti è di 1,7 detenuti, invece, rispetto ai funzionari giuridico- pedagogici è di 80,5 detenuti per ogni educatore, con casi di istituti dove è ancora più sproporzionato: a Napoli Poggioreale ci sono 221 detenuti per un educatore, a Sulmona 208. Oggi la situazione è comunque migliore del 2003 quando gli educatori erano 474, 1 ogni 117 detenuti. Il Dap sta cercando di invertire la tendenza: a settembre ha indetto in concorso assumere 210 nuovi educatori, “un numero che serve a coprire i pensionamenti. In servizio però ne entreranno 160”, spiega Bezzi

Nel frattempo è stato bandito un nuovo concorso per 104 candidati con l’obiettivo di dispone entro gennaio di 700 educatori per averne 1 ogni 65. Una volta superato il concorso però, non si entra effettivamente in servizio, “perché si deve essere formati quasi da zero – spiega Roberto Bezzi, che tiene un corso propedeutico all’Università di Milano-Bicocca Non esistono infatti percorsi accademici per i funzionari giuridico pedagogici che arrivano da lauree in giurisprudenza o psicosociali.

È l’amministrazione penitenziaria che provvede allo sviluppo delle competenze necessarie per essere operatori di prossimità. Il trattamento del detenuto è individualizzato e l’educatore ha il compito di rilevare le carenze della persona e di svilupparne le attitudini grazie alla coprogettazione che ci vede come mediatori tra il carcere, il recluso e il Terzo settore”. È innegabile che i percorsi rieducativi ben strutturati, uniti ad attività sportive e lavorative abbattono la recidiva: “Da Bollate escono ogni giorno per attività in regime di articolo 21, 220 detenuti.

Anche per questo qui la recidiva è al 18% contro la media nazionale del 70”, ritiene Bezzi. È chiaro che con simili rapporti numerici tra detenuti ed educatori, molte delle attività rieducative in carcere siano organizzate dalle associazioni volontariato. “In Lombardia organizziamo 1’80% dei percorsi rieducativi – spiega la guida della Conferenza nazionale volontariato giustizia. Vogliamo che non si pensi che bravo detenuto sia chi sta in branda e “non rompe le scatole”.

Per cambiare questo paradigma, ogni persona deve avere la responsabilità di compartecipare alla progettazione del suo percorso rieducativo. Il ruolo degli educatori è fondamentale, ma lo è anche quello dei volontari che portano in carcere la società civile che ci piacerebbe fosse sempre chiamata a coprogettare la rieducazione del condannato, ma anche la formazione degli educatori e agenti di polizia. Penso che il volontariato in carcere abbia la storia e le competenze per gestire una partecipazione più strutturata, che non sia solo la gestione di un’attività, ma che veda il Terzo settore partecipe anche nella costruzione amministrativa di quel progetto rieducativo con uno o più detenuti”.

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Riducono la recidiva, restituiscono dignità alla persona e danno valore al tempo della pena. È questo che fanno le iniziative culturali portate in carcere dalle associazioni di volontariato e anche dai cappellani degli istituti di pena.

Attività che hanno sempre anche l’obiettivo di essere un tassello della rieducazione del condannato e progetto sociale destinato a influire sulla vita dei detenuti, su come guardano a se stessi e al mondo fuori. Non solo. “Queste esperienze aumentano l’autostima, promuovono l’interazione con gli altri e sono un ponte con la società, tra chi sta dentro e chi vive fuori”. Ne è convinta la filosofa Paola Saporiti, docente al Liceo Edith Stein di Gavirate (Varese), che per l’associazione di volontariato in carcere più antica d’Italia – Sesta Opera San Fedele – dal 2014 porta la filosofia in carcere.

Non per insegnare Platone o Kant ai detenuti, ma per piantare semi che con il tempo e la giusta cura, possano crescere e dare frutti. Da questa idea è nato il “Café Philò”: “Ogni mese entro nel carcere di Bollate insieme ai miei studenti dell’ultimo anno del liceo, sia nel reparto maschile che, dal 2015, in quello femminile – spiega.

Questo è un momento che stimola la riflessione degli studenti e dei detenuti insieme su temi che sono stati oggetto dei ragionamenti dei grandi filosofi come la felicità, il rispetto, la giustizia e la scelta. L’esperienza di questa forma di volontariato fatta di dialogo, permette ai miei studenti di dare forma al concetto di dignità e di rieducazione della pena. Inoltre li rende consapevoli della responsabilità civile che abbiamo gli uni verso gli altri, anche nel caso in cui l’altro sia detenuto. Nel momento in cui la filosofia viene portata all’interno del carcere, non solo ritorna alle sue origini più autentiche ma soprattutto rivela tutta la sua valenza pedagogica”.

Se la filosofia aiuta i detenuti a riflettere sulle sfumature della vita, l’idea di don David Riboldi, cappellano al carcere di Busto Arsizio è nata con lo stesso scopo: restituire a chi sta fuori, a colori, la vita in carcere. Un luogo spesso pensato in bianco e nero. “Nell’anno del tragico record dei suicidi negli istituti di pena, sintomo di solitudine, abbiamo pensato di proporre un corso di fotografia ai detenuti. Tenuto da un fotografo professionista ha permesso loro di realizzare un calendario.

Questo è anche l’unico calendario 2023 al 100% realizzato da detenuti: infatti è stato ideato dalle persone recluse che si sono iscritte al corso di fotografia e seguito le 10 lezioni promosse dalla cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele” in accordo con l’area trattamentale del penitenziario. Negli scatti hanno ricreato scene di vita quotidiana insieme ad alcuni volti noti come Adriana Volpe, Debora Villa, Jo Squillo, Patrick Ray Pugliese, Marco Maddaloni, Martina Tammaro ed Erika Mattina che si sono messi a disposizione dei detenuti. Infine il calendario è stato stampato dalla cooperativa Zerografica, che dà lavoro ai detenuti del carcere di Bollate”.

Lo sguardo del cappellano torna a quanto è accaduto quest’anno: “La solitudine sta seminando morte in carcere come non mai nella storia della Repubblica”. Per moltiplicare le attività don Riboldi ha organizzato un percorso artistico all’interno della casa circondariale di Busto, insieme al “gruppo presepi Marnate”: “Ho trovato la disponibilità dei presepisti a condividere la loro passione e il loro knowhow in 10 appuntamenti di formazione con i detenuti e insieme abbiamo realizzato un presepe, partendo da zero: polistirolo, colori, fantasia”.

Fonte: Avvenire

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