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Il caso Vitale e i pentiti necessari all’antimafia

Luca Tescaroli * il . Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

Due colpi di lupara sparati alla testa, il mattino di domenica 2 dicembre 1984, mentre si trovava davanti alla porta di casa, di ritorno dalla Messa con la madre e la sorella, misero a tacere il capo decina della famiglia di Altarello di Baida Leonardo Vitale, che, undici anni prima, il 29 marzo del 1973, si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo per raccontare quello che sapeva su cosa nostra.

Morì il 7 dicembre 1984, ma prima si autoaccusò di gravi fatti delittuosi, fece i nomi dei complici e dei mandanti, nominò alcuni politici affiliati. Le sue confessioni e le sue accuse – pur avendo fornito tante informazioni vere, che avrebbero meritato ben diversa considerazione e che avrebbero dovuto mettere sulla giusta via magistratura e polizia per neutralizzare sin da allora i feroci corleonesi – ebbero un esito sconfortante: gli uomini che accusò o non vennero indagati o vennero in gran parte assolti e scarcerati, mentre Vitale non venne creduto.

Fu condannato, unitamente allo zio Giovan Battista Vitale, detto Titta, per omicidio e associazione per delinquere, venne dichiarato pazzo (seminfermo di mente) e, comunque, considerato come persona da non prendere sul serio. Venne ricoverato nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto e ritenuto inattendibile, sebbene la malattia che lo affliggeva non comportando, come accertato dal perito, né allucinazioni, né deliri di persecuzione né altre gravi alterazioni psichiche, non escludesse la sua capacità di ricordare e di raccontare fatti a sua conoscenza.

Egli aveva spiegato di aver prestato giuramento di “uomo d’onore”, secondo un preciso rito, di aver ucciso su mandato di suo zio Giovanbattista Vitale, Vincenzo Mannino, campiere mafioso reo d’aver acquisito gabelle senza avere chiesto il “permesso”, Giuseppe Bologna, che aveva accusato lo zio di essere uno “spione”, schiaffeggiandolo, Pietro Di Marco, responsabile di aver commesso un furto nel negozio di abbigliamenti della sorella di Franco Scrima, di aver compiuto diversi danneggiamenti a fini estorsivi ed estorsioni ai danni di costruttori e proprietari terreni per acquisizione di guardianie di cantieri edili.

Aveva fatto i nomi di Vito Ciancimino e del principe Alessandro Vanni Calvello, aveva rivelato quale fosse il ruolo di comando di Pippo Calò e di Salvatore Riina all’epoca del triumvirato (composto da quest’ultimo, da Stefano Bontate e da Gaetano Badalamenti). Vitale raccontò che Riina aveva presieduto una riunione, alla quale aveva partecipato, nel corso della quale aveva provveduto a dirimere la contesa su chi spettasse tra le famiglie mafiose di Altarello e della Noce la tangente imposta all’impresa Pilo, evidenziando che aveva favorito quella della Noce per ragioni “sentimentali”: Riina aveva detto: “io la Noce ce l’ho nel cuore”.

Vitale fu il primo vero pentito, le cui dichiarazioni sin da allora avevano trovato riscontri e, ove fossero state adeguatamente verificate e sviluppate, avrebbero potuto neutralizzare i corleonesi di Salvatore Riina sul nascere e verosimilmente la scia di sangue che hanno prodotto nei successivi vent’anni.

Il 16 dicembre 1987 la sentenza della corte d’assise di Palermo, che aveva definito il primo maxiprocesso, certificò l’importanza delle sue dichiarazioni, che trovarono conferma, dapprima, nei racconti di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno e, successivamente, di Francesco Marino Mannoia.

Il 7 giugno 1996, quando iniziò a collaborare con la giustizia Calogero Ganci mi raccontò chi lo aveva ucciso e le sue dichiarazioni furono determinanti per la condanna degli esecutori. Domenico Guglielmini, Raffaele Ganci e i suoi figli Domenico e Calogero, nel 2008, a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione, sono stati condannati in via definitiva. In un separato procedimento i principali esponenti della “commissione” provinciale di cosa nostra (Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia) sono stati condannati all’ergastolo in qualità di mandanti dell’omicidio di Vitale e di altri pentiti o loro parenti.

A differenza della giustizia statuale, la mafia aveva percepito l’importanza delle indicazioni di Vitale e, nel momento ritenuto opportuno, lo ha inesorabilmente punito per aver violato la legge dell’omertà”, come rilevarono nell’ordinanza di rinvio a giudizio dell’8 novembre 1985 Giovanni Falcone e gli altri componenti del pool che istruirono il maxiprocesso.

Furono necessari diciotto anni di crimini di inaudita violenza, stragi e assassini di uomini delle istituzioni per comprendere come fosse necessaria una normativa sui collaboratori di giustizia, introdotta nel gennaio 1991, solo dopo l’assassinio del giudice Rosario Livatino, che dando dignità giuridica all’istituto, ha fattivamente contribuito ad arginare il potere mafioso.

La vicenda giudiziaria di Leonardo Vitale ci insegna icasticamente quanto siano temuti dalle associazioni di tipo mafioso i collaboratori di giustizia e importanti per individuare i responsabili delle attività delittuose e, al contempo, la necessità di mantenere una normativa rigorosa per i mafiosi irriducibili, in modo che la via della collaborazione appaia concretamente vantaggiosa in termini di benefici penitenziari premiali e di protezione da parte dello Stato.

Un’esigenza che non dovrebbe essere dimenticata in questo periodo in cui dovrà essere convertito in legge il decreto legge sull’ergastolo ostativo, a seguito del monito della Corte Costituzionale, che ha ritenuto incostituzionale l’assetto normativo introdotto dopo la strage di Capaci.

Il loro apporto, naturalmente, va vagliato con estrema attenzione, da parte degli inquirenti, per verificare la rispondenza al vero dei loro racconti ed evitare l’impiego strumentale da parte dei mafiosi della via della collaborazione per continuare a delinquere, sfruttando il regime di protezione, ovvero per depistare.

* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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