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Lotta alla mafia, l’eredità di dalla Chiesa

Gian Carlo Caselli il . Giovani, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Società

Come Giudice istruttore di Torino, ho lavorato con dalla Chiesa e con il suo Nucleo antiterrorismo negli anni 1974-76 (inchiesta sul sequestro Sossi e sui capi storici delle Brigate rosse).

E poi ancora negli anni 1979-80, quando (sviluppando la collaborazione di Patrizio Peci e la conseguente slavina di terroristi pentiti) proprio partendo da Torino fu possibile determinare il  crollo verticale, su tutto il territorio nazionale, dei gruppi criminali che praticavano la lotta armata.

Il “segreto” dei successi di dalla Chiesa stava nel convogliare tutti i dati, ovunque acquisiti, verso un unico centro di raccolta; facendone un motore di approfondimento e ulteriore ricerca, razionale ed organico. Affidando il tutto a uomini formati con criteri di alta specializzazione (dalla Chiesa era inarrivabile nella selezione e forte motivazione dei suoi collaboratori), capaci quindi di “leggere” fin nelle più remote potenzialità di sviluppo i dati.

Dalla Chiesa sapeva anche che di strada se ne fa poca se l’azione repressiva non si intreccia con l’isolamento politico del fenomeno. Decisiva a Torino fu la stagione delle assemblee, moltiplicando (a partire dal 1978) gli incontri nelle fabbriche, nelle scuole, nelle parrocchie, nelle sedi sindacali e di partito: ovunque fosse possibile discutere insieme per convincersi che i terroristi costituivano una minaccia non soltanto per le potenziali vittime ma per tutti, in quanto capaci di bloccare il cammino della democrazia.

Di questa stagione dalla Chiesa fece tesoro quando, con grande coraggio, accettò di essere nominato Prefetto di Palermo. Prova ne sia che occupò parte dei suoi “cento giorni” in quella città a parlare di mafia ai ragazzi delle scuole, agli operai dei cantieri navali e alle famiglie con problemi di droga.

A spingere dalla Chiesa verso questo rapporto con la società civile contribuì il mancato conferimento (nonostante una delibera del Governo del 2 aprile 1982) di poteri e strumenti  efficaci. Il neo prefetto fu invece vergognosamente lasciato solo e “consegnato” alla violenza mafiosa.

La rabbia esplosa dopo la strage di via Carini costrinse però la politica ad approvare la legge 646/1982, nota come legge  Rognoni-La Torre (dal nome del ministro degli interni di allora e del deputato comunista, grande amico di dalla Chiesa, che aveva proposto ed elaborato la legge, ucciso per questo dalla mafia il 30 aprile 1982).

Il nostro Paese, risvegliatosi  da un lungo letargo, introducendo nel codice penale l’art. 416 bis è finalmente capace di riconoscere l’esistenza della mafia come organizzazione, prima negata!

Una “rivoluzione” che consentirà a Falcone e Borsellino di costruire il capolavoro investigativo-giudiziario del maxiprocesso, demolendo il mito della impunità di Cosa nostra. Un motivo in più per essere riconoscenti, ancora oggi, all’eroico  generale–prefetto.

Fonte: La Stampa

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