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Trattativa Stato-mafia. Prestigiatori di sentenze e gattopardi che tornano

Roberto Scarpinato * il . Forze dell'Ordine, Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica

L’ex procuratore generale di Palermo: “Giustificato un passato di convivenza. Si normalizza la cultura dell’omertà e si ritorna a trent’anni fa. Su via d’Amelio la Corte dimentica la complicità di esponenti dello Stato”

La Corte di Assise di Appello del processo “trattativa Stato-mafia” ha ritenuto provata la condotta materiale del reato contestato agli imputati Mori e De Donno, essendo state accertate le plurime condotte da essi poste in essere nel tempo in violazione di tutte le regole di legge, per ripristinare con la componente più moderata di Cosa Nostra, capeggiata da Provenzano, un patto di coesistenza pacifica con lo Stato, patto che aveva caratterizzato tutta la storia della prima Repubblica e che i vertici mafiosi ritennero tradito a seguito della condanna definitiva del maxiprocesso.

Tuttavia la Corte non ha ritenuto sussistente la componente soggettiva del reato, cioè il dolo, perché tali condotte sarebbero state motivate da intenti solidaristici, cioè dall’intento di evitare ulteriori stragi. Ciò sebbene le condotte realizzate dagli imputati  abbiano di fatto sortito (come era ampiamente prevedibile) l’effetto opposto di rafforzare la determinazione della mafia di compiere ulteriori  stragi, quali quelle del 1993, per concludere la trattativa così avviata. E ciò nonostante tali condotte abbiano di fatto consentito il prolungamento per tanti anni della latitanza e quindi dell’attività criminale di Provenzano.

Nel condividere la preoccupazione di chi, come il collega Di Matteo, ha già osservato come tale motivazione dell’assoluzione si presti ad essere letta come una legittimazione e un viatico a dialogare con la mafia, a “conviverci” purché e affinché moderi la sua aggressività rendendosi silente, vorrei focalizzare un altro aspetto rilevante della sentenza: la parte sui possibili motivi che determinarono Riina ad anticipare e ad accelerare l’uccisione di Borsellino.

Nell’affrontare tale delicatissimo tema, inspiegabilmente nelle 2971 pagine della motivazione, la Corte di Assise di Appello non spende un solo rigo sulla vicenda della sottrazione dell’agenda rossa da parte di uomini degli apparati istituzionali; sulla forzata induzione di Scarantino a rendere false dichiarazioni; sulla presenza, rivelata da Gaspare Spatuzza, di un soggetto esterno a Cosa Nostra nel momento cruciale del caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126 utilizzata per la strage; sugli “infiltrati della Polizia” dei quali Franca Castellese il 14 dicembre 1993 implorò il marito Mario Santo Di Matteo di non fare menzione ai magistrati, dopo che a seguito dell’inizio della sua collaborazione con la giustizia era stato rapito il loro figlio Giuseppe il 23 novembre; sulle accertate e vive preoccupazioni di Paolo Borsellino nei confronti degli uomini del Sisde; sull’omicidio ordinato da Riina negli stessi giorni della strage di Via D’ Amelio del capomafia di Alcamo Vicenzo Milazzo, già coinvolto della strage di Pizzolungo, dopo che questi si era rifiutato di unirsi alla strategia stragista, declinando per tre volte le sollecitazioni ricevute da uomini dei servizi segreti con i quali si era incontrato alla presenza di un colletto bianco che è stato identificato.

È evidente che facendo sparire tutto questo e molto altro dal contesto argomentativo, viene preclusa in radice qualsiasi possibilità di pervenire ad una ricostruzione dei motivi dell’accelerazione della strage che chiamano in causa apparati deviati dello Stato; e si elimina nel lettore la consapevolezza di elementi essenziali che contraddicono la tesi alla quale perviene così quasi per default la Corte  in esito a questo gioco di prestigiditazione probatoria per sottrazione.

Tesi che può riassumersi nei seguenti termini: dovendosi escludere che l’accelerazione fu determinata dal pericolo che Borsellino ostacolasse il buon esito delle trattativa, resta in campo come unica ipotesi residuale alternativa l’interesse di Borsellino sul tema mafia-appalti. Nel ridurre la vicenda stragista di Via D’Amelio nel letto di Procuste di contingenti interessi di natura economica di Riina e di qualche colletto bianco, la Corte disattende così implicitamente possibili complicità di esponenti dello Stato.

È evidente infatti che i gravissimi fatti sopra accennati dei quali la Corte non fa alcuna menzione, e i ripetuti plurimi e complessi interventi depistatori posti in essere con grande dispiego di forze da vari esponenti di apparati statali prolungati nel tempo sino ad epoca molto recente,  sono assolutamente incompatibili con l’ipotesi riduzionistica prospettata dalla Corte.

Si tratta di fatti e interventi depistatori che attestano che vi erano ben altri scheletri che rischiavano di uscire fuori dall’armadio se Borsellino fosse rimasto in vita ed avesse potuto così trasfondere in atti giudiziari l’esito delle indagini da lui compiute sui responsabili e sulle complesse causali della strage di Capaci. Scheletri che spiegano perché gli interventi di soggetti esterni attraversino ininterrottamente tutta la sequenza stragista dalla strage di Capaci nel maggio 1992 sino alle stragi del 1993 nel continente, come emerge da una pluralità di elementi probatori e come peraltro relazionò la DIA già nel 1993 con una informativa nella quale si comunicava che dietro le stragi del 1992 e del 1993 si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.

Scheletri che spiegano anche il perfetto sincronismo operativo  tra i mafiosi che fanno esplodere l’autobomba e l’immediata apparizione sulla scena di soggetti appartenenti agli apparati istituzionali che, grazie alla loro insospettabilità, possono adempiere alla mission di fare sparire l’agenda rossa, completando l’opera.

È chiaro infatti che non bastava uccidere Borsellino, se la sua agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, lo scopo della sua repentina eliminazione sarebbe stato frustrato. Ed è altresì evidente che la sottrazione dell’agenda non fu finalizzata a  tutelare i mafiosi esecutori della strage, ma i loro compici eccellenti.

Né la Corte si chiede perché proprio la Direzione Investigativa Antimafia, l’organismo di Polizia interforze specializzato in materia di mafia, creato su impulso decisivo di Giovanni Falcone e diretto da Gianni De Gennaro amico di Falcone e Borsellino i quali con lui si confidavano, fu inopinatamente esclusa dalla Procura di Caltanissetta dalle indagini sulla strage, privilegiando invece con un colpo di mano il Sisde di Bruno Contrada e Arnaldo La Barbera, altro soggetto collegato al Sisde, con gli esiti che sono noti e che portavano in una direzione completamente diversa.

Bisognerebbe anche chiedersi perché alcuni magistrati che più si sono spesi per dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi di mafia del 1992 e del 1993, siano stati accomunati dallo stesso destino: ostracizzati ed emarginati in vari modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e addirittura penali, altri al centro del mirino di prolungate  campagne di delegittimazione.

Vari indizi inducono a ritenere che  purtroppo le stragi del 1992 e del 1993 non sono eventi conclusi ma sono ancora tra noi, perché accanto a un dibattito pubblico e ad una dialettica giudiziaria nel quale continuano democraticamente a confrontarsi opinioni diverse, non sono mai sono cessate dietro le quinte occulte manovre per chiudere definitivamente questa spinosa partita, riducendo una volta per tutte le responsabilità e le causali di quelle stragi esclusivamente a personaggi come Riina ed i suoi sodali, elevati a icone totalizzanti del male di mafia.

Non mi sembra – nonostante l’impegno profuso da taluni magistrati – che esistano le condizioni socio politiche per un salto di qualità complessivo delle indagini che consenta di pervenire ad una verità giudiziaria completa. È in corso una inquietante accelerazione del processo di normalizzazione e di restaurazione culturale di cui si colgono tanti segnali. Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato, un passato di convivenza tra Stato e mafia, un passato di occulte transazioni  tra Stato legalitario e Stato occulto, un passato di rimozioni e di amnistia permanente tramite amnesia collettiva, sta tornando ad essere la cifra del presente e del futuro.

Ritornano in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione con la mafia;  si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei Servizi Segreti – come il generale Gianadelio Maletti – condannati per depistaggio delle indagini sulla strage di Piazza Fontana a Milano del 12.12.1969; si normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente condivisibile la scelta dei mafiosi stragisti irriducibili di non collaborare con lo Stato, autorizzando con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro fuoriuscita dal carcere anche in assenza di collaborazione, solo a condizione che provino di avere deposto le armi e di essersi dissociati definitivamente dalla mafia; si approvano a ripetizione leggi che riportano indietro l’orologio della storia ai tempi del primo Novecento ripristinando il trionfo della gerarchia nella magistratura. Leggi che creano una magistratura alta e una bassa ed  esaltano la figura di dirigenti soprastanti il cui compito è quello di garantire che i magistrati sottoordinati  smaltiscano rapidamente il più elevato numero di processetti e non sprechino risorse e tempo per indagini complesse ad alto rischio e di esito incerto, come quelle che riguardano la criminalità dei colletti bianchi e del potere.

Oggi come ieri in un paese come l’Italia segnato sin dalla nascita della Repubblica da una sequenza ininterrotta di stragi e di omicidi eccellenti senza uguali in altri paesi europei, da patti occulti con la mafia, dalla corruzione sistemica – tutte declinazioni della criminalità di settori portanti delle classi dirigenti – la questione giustizia resta inestricabilmente connessa alla questione democratica e dello Stato. Quale Stato? Quello di quei carabinieri che trattarono con la mafia o quello di Falcone e Borsellino?

Lo Stato che ha depistato tante indagini sulle stragi da Portella delle Ginestre, a Peteano, a Milano, a  Brescia, a Bologna, sino a quelle del 1992 e del 1993, o lo Stato nel quale si riconosce quella parte di questo paese che non si vuole rassegnare a convivere con i poteri criminali?

Questo è stato in passato e resta per il futuro  il nodo politico cruciale del nostro paese ed una delle incognite più inquietanti del futuro della nostra  democrazia.

* Magistrato, ex procuratore generale di Palermo

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 09/08/2022

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