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Processo alla vittima: l’omicidio Pasolini

Giovanni Landi il . Criminalità, Cultura, Giustizia, Memoria, Politica, Società

Un’auto contromano a folle velocità. Inizia con una doppia infrazione stradale la storia giudiziaria dell’omicidio Pasolini, un enigma che dura da quasi mezzo secolo. Una vicenda talmente simbolica da sembrare essa stessa un’opera: per la vittima, prima di tutto, intellettuale gigantesco e tormentato; per il presunto colpevole, archetipo umano ed estetico dei «ragazzi di vita», e quindi di un mondo che il poeta aveva disvelato e narrato come nessuno prima; per la collocazione temporale: il giorno dei Morti del 1975, centro esatto degli anni di piombo e del secondo Novecento; infine, per i risvolti processuali, i comprimari, le clamorose rivelazioni e le domande irrisolte.

Confessione di un massacro

La corsa illecita di quella macchina è breve. Vedendola sfrecciare sul lungomare Duilio di Ostia, all’1.30 di notte, una volante dei carabinieri la affianca e la blocca. Ma a scendere dal posto di guida non è il proprietario, bensì un diciassettenne di Guidonia di nome Pino Pelosi, tanti riccioli scuri e un viso da furbetto. Sulla fronte ha una piccola ferita, da lui attribuita alla brusca frenata. «L’ho rubata sulla Tiburtina», mente in commissariato. Una bugia che dura poche ore: i militari accertarono che l’Alfa Romeo GT è di Pier Paolo Pasolini, e alle 6.30 di quel 2 novembre 1975 il cadavere dello scrittore viene rinvenuto su una strada sterrata dell’Idroscalo di Ostia, con i segni chiari e visibili di un feroce massacro. È Ninetto Davoli a effettuare il riconoscimento. A tre metri di distanza giace un anello con una pietra rossa: sarà la pistola fumante per inchiodare Pelosi. Dopo l’arresto, infatti, il ragazzo aveva confidato agli agenti di aver perso un anello, pregandoli di cercarlo nella macchina. Quasi una firma dell’assassinio, o una clamorosa ingenuità. A quel punto, il giovane viene svegliato nella sua cella di Casal del Marmo e interrogato dal magistrato Luigi Tranfo. La sua confessione è immediata. Racconta di essere stato «abbordato» dal poeta in piazza dei Cinquecento, di fronte alla stazione Termini di Roma, intorno alle 22.30. Dopo una pausa in trattoria, dove Pelosi aveva consumato una cena tardiva, si erano fermati a un distributore di benzina e avevano proseguito per l’Idroscalo di Ostia, parcheggiando sotto la porta di un campetto di calcio rudimentale, a pochi metri da un nugolo di baracche abusive. Ventimila lire la ricompensa promessa. Al termine di un veloce rapporto orale, però, Pino era sceso dall’auto e la situazione era degenerata. Pasolini aveva preteso altre prestazioni, avvicinandosi al diciassettenne con un bastone: «“Ma che te sei impazzito”, gli dissi. Nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto, tanto che ne ho avuto proprio paura». Il ragazzo aveva tentato di scappare, ma era stato aggredito con il randello di legno, da cui la ferita alla fronte. Aveva provato a correre di nuovo, rimediando altri colpi «alla tempia e in varie parti del corpo». Quindi aveva raccolto da terra una tavola e l’aveva spaccata in testa all’aggressore, senza tuttavia riuscire a fermare la sua smania violenta. «Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava, ma ho trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei pezzi della tavola l’ho colpito di taglio più volte finché non l’ho sentito cadere a terra e rantolare». L’interrogato spiega poi di essere salito sull’Alfa Romeo per tornare a casa. Il magistrato gli riferisce che il poeta, al termine del massacro, era stato addirittura sormontato dall’auto in fuga. Il giovane nega di averlo fatto volontariamente, e conclude: «Ho agito per difendermi e ho avuto l’impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare, per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo. Anzi, siamo stati sempre soli io e il Paolo, dal momento in cui abbiamo lasciato l’osteria fino a quando è successo quello che è successo».

Fra le baracche di Ostia

Lo sconcerto per la fine di un personaggio tanto conosciuto e discusso si somma fin da subito alle analisi sul significato e sulle cause di un episodio così tragico. Nel corso del funerale, Alberto Moravia urla tutta la propria disperazione per la perdita di un poeta vero, quando «di poeti ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo». L’apparente coerenza fra opera e biografia inquieta. Pier Paolo Pasolini aveva costantemente avvertito la società sul pericolo di una violenza dilagante e appiattente, da ultimo all’indomani dei fatti del Circeo, avvenuti appena due mesi prima, ma si era anche fatto interprete di un’esistenza votata al rischio, alla provocazione, all’esperimento. «Amo la vita ferocemente» aveva scritto, «così disperatamente, che non me ne può venire bene». Inizia ad originarsi, in questo lutto inatteso, il mito pasoliniano giunto fino a noi, con il suo carico di bellezza, dolore, struggimento. E mistero.

La confessione di Pelosi non convince gli amici di Pasolini e i legali della famiglia. Il sospetto che il borgataro intenda coprire qualcuno aleggia nell’aria immediatamente. A risultare auto-evidente, in primo luogo, è la sproporzione fra le condizioni fisiche dei due protagonisti dell’evento. Il verbale parla di una crudele lotta reciproca sfociata nel sangue per legittima difesa, ma mentre la vittima, cioè il presunto assalitore, ha subìto lesioni gravissime e mortali, l’omicida, ovvero «l’aggredito», la notte fatidica aveva appena una ferita alla testa, piccole ecchimosi ed escoriazioni alle mani e alle gambe e una frattura incompleta al setto nasale. I vestiti erano asciutti e riportavano tre macchie ematiche quasi invisibili. E infatti i carabinieri che lo avevano arrestato non avevano sospettato nulla. Gli oggetti di legno trovati vicino al corpo, leggeri e friabili, appaiono inidonei a causare un tale scempio. Ma a lasciare perplessi è anche il motivo di una reazione così violenta, culminata con un investimento, e l’incapacità dello scrittore, forte e in salute, di difendersi di fronte all’improvvisa furia di un ragazzino. Nell’Alfa Romeo, poi, vengono rinvenuti un maglione verde e un plantare non appartenenti né a Pasolini né a Pelosi.

In un’inchiesta a puntate pubblicata sul settimanale «L’Europeo», Oriana Fallaci elenca i dubbi sulla vicenda e riferisce il racconto di una fonte anonima, secondo la quale il poeta sarebbe stato ucciso da due teppisti giunti sul posto in motocicletta. Furio Colombo, peraltro autore dell’ultima intervista a Pasolini, riporta sulla «Stampa» la testimonianza di un baraccante: «Lo scriva che è tutto uno schifo, che erano in tanti. Lo hanno massacrato quel poveraccio. Erano quattro o cinque». Alcuni discepoli di Pasolini, come i fratelli Franco e Sergio Citti e lo sceneggiatore Enzo Ocone, avviano una serie di indagini parallele, e lo stesso fa il legale della famiglia, Nino Marazzita. Il lavoro della magistratura, nel frattempo, viene accusato di approssimazione: la scena del delitto non è stata circostanziata, l’automobile è stata lasciata alla pioggia, gli interrogatori dei residenti sarebbero stati incompleti e tardivi.

La stampa si divide. Se a sinistra inizia a emergere l’ipotesi del complotto contro un intellettuale scomodo, o comunque di un martirio sociale e culturale, le principali testate conservatrici si ribellano a qualsiasi mitologia e confermano – o approfondiscono – la loro storica ostilità verso un nemico del buon costume e della moralità. Franco Grattarola, nel ricchissimo saggio Pasolini. Una vita violentata (Coniglio, 2005), restituisce con lucidità il clima di quei giorni. Il delitto viene circoscritto e spiegato nella dinamica corrotto-corruttore. Quando lo stile comportamentale è quello della devianza e della libidine, si nota, la morte violenta diventa un accidente prevedibile, persino necessario. Il ribaltamento di prospettiva è totale. Di fronte alle tesi cospirative, il «Borghese» parla di una «sporca, sordida speculazione politica». «Fosse stato ucciso, poniamo, da un “fascista”, egli, oggi, sarebbe il martire della resistenza. Purtroppo per i suoi apostoli, egli era sempre primo nelle ore di un solo pericolo: quando scoccava un raptus indomabile che si esercitava su “ragazzi di vita”, nei quali il bisogno spinge, spesso, a non difendere a oltranza la inviolabilità del pudore. Il diciassettenne che recalcitra e per sottrarsi a turpitudini uccide, non muove il mondo della sinistra neppure a pietà; è considerato indegno di interesse e difesa. Il martire dell’idea è soltanto lui, Pasolini, che si è immolato sul fronte dell’amore socratico». Senza alcuna continenza verbale, «La Gazzetta del Sud» considera il defunto «un omosessuale perverso»: «La sua morte non ci turba, né ci commuove, né ci emoziona». «I ragazzi di vita gli hanno dato la morte», ironizza «Lo Specchio». Sulle pagine del «Candido», Paolo Pisanò esprime la sua delusione per un uomo che pure aveva seguito con speranza e interesse, considerandolo come l’oppositore del mondo disumanizzato e consumista e della violenza bestiale che da esso si sprigiona. Invece «la sua morte, purtroppo, ha cancellato di colpo quello che si è rivelato un abbaglio, un’illusione: lungi dall’essere concretamente un campione di quella lotta, Pasolini si è rivelato, in punto di morte, un portatore di quei valori negativi e di quella violenza che egli diceva di combattere e condannare». E conclude: «Quella tragica notte, fra le baracche del lido di Ostia, il rapporto era estremamente rovesciato: volendo usare termini correnti, Pasolini era “il mostro”, Pelosi “la vittima”».

Ma i distinguo e i biasimi si ritrovano anche a sinistra. Sul «Manifesto», Rossana Rossanda e Luigi Pintor invitano a non cadere in ipocrisie e a sanzionare la mercificazione del corpo. Su «Paese Sera», giornale paracomunista, Edoardo Sanguineti è severo: «Sembra impossibile negare a questa morte i tratti di un suicidio preparato minuziosamente, quasi a completare il disegno di una persecuzione perpetuata lentamente, e, al tempo stesso, un lungo progetto di confusione tra arte e vita, tra letteratura e esistenza». Lo stesso quotidiano ospita un intervento dello psicologo Ignazio Maiore, che di PPP ricorda il dolersi per il diffondersi della delinquenza negli strati popolari e giovanili, dai quali, presago, si sentiva minacciato. «Erano quegli stessi giovani che lo attraevano in maniera coatta, per lui inarrestabile». E ancora: «Il problema più profondo dell’omosessualità è la difficoltà di sopportare la convivenza e la rivalità con il proprio sesso, che viene sentito come persecutorio e pericoloso, come appunto accadeva a Pasolini. In definitiva, un rapporto omosessuale è basato più sull’odio che sull’amore. Pasolini ha cercato in tutti i modi di spadroneggiare ed esorcizzare il suo dramma. Ha perduto. La sua poesia non l’ha salvato». Il Pasolini offeso, boicottato e incompreso, il Pasolini che in vita aveva subìto oltre trenta procedimenti giudiziari, vendendo accusato dei reati più diversi – fra questi, corruzione di minori, vilipendio alla religione, persino rapina a mano armata ­­– riemerge in molti commenti successivi al delitto, e continuerà a farlo nel corso del processo a Pino Pelosi, quando la principale strategia difensiva dell’imputato, o meglio dei suoi legali, sarà quella di far precipitare definitivamente nel fango la vita e l’opera della vittima.

La parola alla giustizia

Il dibattito giornalistico si rispecchia nella tensione scatenatasi intorno al collegio difensivo di Pino Pelosi. L’avvocato d’ufficio dura una notte, mentre il primo legale di fiducia, scelto su consiglio di un compagno di cella, viene revocato dopo due giorni. Il 5 novembre il giovane indagato firma una tripla nomina: i fratelli Tommaso e Vincenzo Spaltro e Rocco Mangia, difensore di uno dei massacratori del Circeo. Il nome di Mangia, noto giurista di destra, è stato suggerito ai genitori di Pelosi da un cronista del «Tempo», il massone Franco Salomone. Ma il terzetto si fraziona subito. Mentre gli Spaltro propendono per la tesi del complotto, temendo che l’assistito taccia l’identità dei veri colpevoli, Mangia sceglie un’altra linea. Pelosi dice la verità: ha agito da solo perché provocato da un adulto corruttore. Prevedibilmente, a metà novembre Mangia diventa l’unico difensore del ragazzo. Il detenuto viene interrogato altre tre volte, nel corso delle quali aggiunge alcuni particolari e ribadisce l’assenza di complici. Nel frattempo, il procuratore generale Walter del Giudice, lamentando la lentezza delle indagini, avoca a sé l’inchiesta e la affida a un altro magistrato, Guido Guasco. Il 10 dicembre 1975, il reo confesso Pelosi è rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario.

Il processo per il delitto Pasolini inizia il 2 febbraio 1976 di fronte al tribunale minorile di Roma. Presidente del collegio giudicante è Carlo Alfredo Moro, fratello del politico DC, giudice a latere è Giuseppe Salmè. L’accusa è rappresentata dal sostituto procuratore Giuseppe Santarsiero, mentre la parte civile si è affidata a Nino Marazzita e Guido Calvi, con delega firmata dall’anziana madre dello scrittore, Susanna Colussi.

Rocco Mangia punta sull’immaturità di Pelosi e sulla legittima difesa, sperando nella non imputabilità o in un esito di omicidio preterintenzionale o colposo. Fin dalle sue primissime istanze, appare chiaro come l’avvocato intenda tramutare il procedimento nell’ultimo, definitivo processo a Pasolini. Malgrado l’imputato sia minorenne, chiede le «porte aperte» e le telecamere; contesta la costituzione di parte civile, sostenendo l’incapacità d’intendere e di volere della signora Colussi; cerca di far acquisire agli atti il corposo fascicolo sui procedimenti giudiziari contro l’intellettuale; propone come testimoni numerosi oppositori di Pasolini. In quel periodo, tra l’altro, è arrivato al cinema – ed è stato subito sequestrato – il film postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma, definito da un settimanale un «mostruoso testamento». Mangia ha buon gioco nell’additare la pellicola come la conferma dell’indole sadica del regista. L’attore Uberto Paolo Quintavalle, membro del cast, porta alle stampe il libello Giornate di Sodoma. Ritratto di Pasolini e del suo ultimo film, ricco di pettegolezzi e indiscrezioni sul periodo delle riprese. La difesa di Pelosi tenta senza successo di far acquisire anche quel testo.

In udienza non mancano colpi di scena e aspre polemiche. Mario Appignani, il futuro disturbatore “Cavallo Pazzo”, irrompe in aula accusando dell’omicidio due conoscenti dell’imputato, salvo rimangiarsi tutto. Oriana Fallaci rifiuta con forza di rivelare la fonte della sua inchiesta giornalistica, che per alcuni era lo stesso Appignani. E ancora: si viene a sapere che due giovanissimi amici di Pelosi, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, hanno confidato a un carabiniere infiltrato di aver partecipato al delitto. Interrogato a più riprese, però, il più grande giura di essersi inventato tutto per semplice vanteria.

L’audizione del medico legale Faustino Durante, perito di parte civile, rappresenta un momento essenziale. Planimetrie e autopzia alla mano, lo specialista dimostra come lo scrittore fosse stato volontariamente «sormontato» dalle ruote dell’auto, e non «schiacciato» dalla parte inferiore della vettura, come dichiarato dai consulenti d’ufficio. Inoltre, le lesioni sul cadavere vengono giudicate incompatibili con il bastone e la tavoletta rinvenuti sul posto. Il perito analizza nel dettaglio le varie fasi della lotta per ritenere contraddittoria «la constatazione che il Pelosi sia rimasto indenne da ampi imbrattamenti di sangue», visto che nella prima fase Pasolini era senz’altro in grado di reagire, essendosi addirittura tolto la camicia e avendo percorso a piedi molti metri. Il perito si concentra poi su una macchia ematica trovata sullo sportello anteriore del passeggero; la traccia lascia aperta la possibilità che, al momento della fuga, ci fosse qualcun altro.

Durante il suo esame, Pino Pelosi ribadisce di aver agito da solo. Tutti i periti del processo, in maniera inaspettata, concordano sulla sua immaturità, sottolineando la debole strutturazione dell’Io, la superficialità affettiva e la povertà culturale.

La parte civile chiede la condanna del diciassettenne e enumera gli indizi su un concorso di persone, dopo di che si ritira dal processo ed evita di pretendere un risarcimento. Nella relazione fornita alla Corte, Marazzita e Calvi tratteggiano un accorato ritratto artistico e umano della vittima: «Pelosi è di questo processo, è di questo tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché è di un’altra realtà». Anche la pubblica accusa reclama la condanna per omicidio volontario in concorso con ignoti. Nella sua lunga arringa, l’avvocato Mangia chiede l’assoluzione per incapacità di intendere e di volere e lancia duri improperi contro la stampa, la parte civile e PPP.

La sentenza arriva il 26 aprile 1976, quando il giudice Moro e i suoi colleghi condannano Pino Pelosi per omicidio volontario in concorso con ignoti, furto d’auto e atti osceni. Vista la minore età e le attenuanti, la pena comminata è di nove anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione. La tesi dell’immaturità è rigettata, poiché il giovane era in grado di «percepire il significato antisociale dell’atto omicida». Quanto ai complici, «il collegio ritiene che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».

L’Appello e i complotti

Al termine del primo grado, la Procura generale sostituisce il pm Santarsiero con Guido Guasco, il quale prende una decisione eclatante: impugna la sentenza Moro per contestare il concorso con ignoti, ovvero la tesi sostenuta dal suo stesso predecessore. A fare ricorso, naturalmente, è anche la difesa, che continua a puntare sull’immaturità e sul gesto colposo. Il 4 dicembre 1976 la Corte d’Appello conferma la condanna per omicidio volontario e furto d’auto, assolve per atti osceni e stralcia il concorso con ignoti. I giudici cercano di smontare tutti gli indizi sulla presenza di terze persone. La sproporzione fra le ferite, ad esempio, può essere spiegata ipotizzando che sia stato Pelosi ad aggredire per primo l’altro, «cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall’inizio la capacità di difendersi». La pronuncia esclude che Pasolini abbia cercato di violentare il giovane, e quindi l’interrogativo sul movente «è destinato a rimanere senza risposta». Forse Pelosi voleva rapinare l’uomo e rubargli l’auto, oppure aveva esagerato con la violenza dopo un banale litigio, uccidendo per guadagnarsi l’impunità.

Il 26 aprile 1979 la Cassazione conferma totalmente la sentenza d’Appello, ma non mette la parola fine agli enigmi. Nel corso di questi cinque decenni, il relativo fascicolo giudiziario è stato riaperto – e chiuso – quattro volte, mentre sono fioccati i libri, i film e le teorie alternative sulla notte dell’Idroscalo. Il 1987 è la data della prima riapertura dell’inchiesta, attuata su istanza dell’avvocato Marazzita. Lo scopo era verificare un eventuale coinvolgimento nel delitto di Giuseppe Mastini, detto «Johnny lo Zingaro», un criminale romano amico di Pelosi e il cui nome compariva in alcune lettere e indiscrezioni. Nel 1995 i magistrati romani tornano a indagare sul caso a seguito del film di Marco Tullio Giordana Pasolini ­– Un delitto italiano, da cui è tratto l’omonimo libro: una ricostruzione puntigliosa di tutti gli elementi a favore della pluralità di assassini. Dieci anni dopo, il 7 maggio 2005, va in scena la svolta più clamorosa e controversa: Pino Pelosi cambia platealmente versione e si dichiara innocente. Lo fa durante un’intervista televisiva concessa a Franca Leosini per la trasmissione di Raitre Ombre sul Giallo. L’ex ragazzo di vita, ormai quarantaseienne, racconta tutta un’altra storia: lui e il poeta erano stati aggrediti da un gruppo di persone, le quali avevano massacrato Pasolini a suon di insulti («Arrusofetuso, sporco comunista»), e avevano indotto lui al silenzio sotto minaccia («Fatti i cazzi tuoi, sennò uccidiamo pure te e tutta la tua famiglia»). Ora che era rimasto solo, essendo morti i genitori, Pelosi si era deciso a rivelare la verità.

Il caso si riaccende con prepotenza. Il giorno dopo, il «Corriere della Sera» ospita un’intervista a Sergio Citti, storico collaboratore di Pasolini, secondo il quale il regista sarebbe stato tirato in trappola da alcuni malviventi con la scusa delle pellicole rubate di Salò. Ed ecco la terza inchiesta, archiviata in ottobre senza nuovi riscontri. Nel frattempo le teorie del complotto si sono affinate. Una delle più rilevanti riguarda il romanzo incompiuto Petrolio, pubblicato postumo nel 1992. In esso Pasolini sembra accusare Eugenio Cefis di aver ordito l’attentato contro il presidente dell’ENI Enrico Mattei. Altre tesi hanno parlato di una spedizione punitiva di stampo omofobico e politico, di un suicidio rituale, della P2, della volontà di silenziare una voce libera e capace di scottanti rivelazioni.

La quarta e ultima istruttoria, sollecitata da un cugino di Pasolini e dallo stesso ministero della Giustizia, dura cinque anni, dal 2010 al 2015. Fra i diversi testimoni ascoltati ci sono anche alcuni baraccanti dell’epoca. La signora Anna ricorda di aver sentito, quella notte, «voci di diverse persone, sicuramente più di due». Ora che è possibile, gli inquirenti dispongono le analisi del DNA sui reperti dell’omicidio, ovvero i vestiti e i bastoni conservati nel museo criminologico di Roma. In effetti, emergono materiali biologici appartenenti a terze persone, ma le tracce, come sempre, non sono databili, né risultano riferibili ad alcun sospettato, come Mastini o i Borsellino. Nel frattempo, Pelosi cambia ancora una volta versione in un libro dal titolo Io so… come hanno ucciso Pasolini (2011): con l’intellettuale si frequentava da tempo, dice, ma malgrado ciò aveva accettato di fare da intermediario nella restituzione delle bobine di Salò. Arrivati all’Idroscalo, erano stati raggiunti dai fratelli Borsellino e da altri ignoti assalitori. Di fronte ai pm, il condannato ribadisce questa nuova ricostruzione, apparendo sempre meno credibile. Le sue giravolte e contraddizioni lo rendono ormai un personaggio tragico. Neanche stavolta, insomma. si raggiungono risultati concreti. Il 25 maggio 2015 il Gip di Roma dispone l’ultima archiviazione. Nel provvedimento, la presenza di altri soggetti viene ritenuta «molto probabile», ma si rivela la difficoltà di stabilirne l’identità. Nessun altro magistrato interverrà in futuro sulla vicenda.

Pino Pelosi è morto di cancro il 20 luglio 2017, portando con sé, se c’è, la verità definitiva su quel 2 novembre 1975. L’omicidio Pasolini, eterno mistero italiano, continua a chiamare a rapporto le nostre coscienze, così come l’intera, straordinaria opera della sua vittima.

Fonte: Giustizia Insieme

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