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Il pericolo che la violenza diventi lo stile di vita di molti giovani

Piero Innocenti il . Criminalità, Cultura, Diritti, Giovani, Salute, Sicilia, SIcurezza

Sono diventati molti, negli ultimi anni, i giovani stranieri e italiani che stanno facendo della violenza uno stile di vita.

Non soltanto più bande giovanili sudamericane nate e cresciute in diverse città del nord, sulle quali già circa sedici anni fa (novembre 2006) metteva in guardia il Dipartimento della Pubblica Sicurezza con un documento riservato della Direzione Centrale Anticrimine, ma anche “baby gang” nostrane costituitesi, da qualche anno, nell’indifferenza generale di istituzioni pubbliche e famiglie.

Sono ormai numerosi gli episodi di violenza annotati negli ultimi tre anni che devono far riflettere sulle cause di tale fenomeno e sulle possibili soluzioni da ricercare. Di certo sono aumentate le criticità di giovani stranieri legate non solo al processo migratorio (nel 2022, alla data del 15 giugno, sono già 2.505 i minori non accompagnati sbarcati/soccorsi sulle nostre coste sul totale di 22.178 migranti) e al sentimento di sradicamento dalle proprie origini ma anche alla esclusione e discriminazione  nella società di accoglienza, di abbandono del l’ambito familiare.

Ambiente, quest’ultimo, in cui vivono i giovani caratterizzato da condizioni di vita precarie, insicurezza rispetto al soggiorno, assenza dei genitori costretti a lunghi orari di lavoro. Senza contare le ulteriori negatività, come le precarie condizioni di alloggi condivisi con altre famiglie (anche sconosciute), i ricongiungimenti familiari che talvolta coincidono con la “novità” di nuove realtà familiari con cui ci si deve relazionare, una realtà locale diversa da come era stata descritta da chi viveva nel paese di origine.

In situazioni del genere i giovani possono adottare un comportamento di rifiuto e di non riconoscimento dell’autorità genitoriale. Le difficoltà e gli ostacoli incontrati possono determinare smarrimento e spingere  verso chi si sente egualmente escluso.

L’adesione ad una “organizzazione di strada” può, così, rappresentare una via di fuga da situazioni familiari complicate e da carenze affettive. Criticità per un giovane migrante nascono anche dalla precoce separazione da uno o entrambi i genitori per tempi spesso lunghi, da una infanzia trascorsa nel paese di origine curati da parenti (quasi sempre nonni), premurosi ma anziani per dare adeguate risposte sul tempo presente, al doppio trauma della separazione dai nonni e del ricongiungimento ai genitori diventati quasi estranei, alle generali condizioni di esclusione e subalternità sociale e lavorativa che i genitori sperimentano.

La spinta per i giovani migranti ad entrare nel gruppo di pari per cercare aiuto e supporto diventa così un modo concreto per tentare di uscire dall’anonimato, per combattere l’esclusione sociale e la diffusa percezione di discriminazione di cui si sentono oggetto. Aderire al gruppo di strada è una sorta di rifugio alle difficoltà di tutti i giorni e rappresenta il contesto umano in cui si prende coscienza che la condizione specifica dei giovani non è solo il prodotto di esperienze individuali negative ma è strettamente connessa a condizioni sociali, economiche, giuridiche e culturali di un contesto più grande.

Le bande di strada rappresentano un fenomeno che non riguarda soltanto gli ambiti della criminalità ( che restano, comunque, preoccupanti) e della devianza giovanile ma anche quello della integrazione dei migranti e delle seconde generazioni.

Il vero problema resta, dunque, “quell’assenza di diritti fondamentali che genera insicurezza e sofferenza per gli immigrati, con conseguenze su noi stessi (Dossier Caritas/Migrantes del 2010) e sul punto molti politici e rappresentanti istituzionali continuano a fare le “orecchie da mercante”.

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