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Un Occidente prigioniero

Adelphi Edizioni il . Recensioni

Nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Solženicyn sulla censura nell’Urss, si tiene in Ceco­slovacchia il IV Congresso dell’Unione degli scritto­ri. Un congresso diverso da tutti i precedenti – me­morabile. Ad aprire i lavori, con un discorso di un’audacia limpida e pacata, è Milan Kundera, allo­ra già autore di successo.

Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle «piccole nazioni», appare evidente – dichiara Kundera – che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei «vandali», gli ideologi del regime. La rottura fra scrittori e potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema a­vesse accelerato il disfacimento della struttura poli­tica.

A questo discorso, che segna un’epoca, si ricol­lega un intervento del 1983, destinato a «rimodella­re la mappa mentale dell’Europa» prima del 1989.

Con una veemenza che il nitore argomentativo non riesce a occultare, Kundera accusa l’Occidente di ave­re assistito inerte alla sparizione del suo estremo lem­bo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa appartengono a tut­ti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 hanno dato vita a grandiose rivolte, sorrette dal «connubio di cultura e vita, creazione e popolo», non sono infatti agli oc­chi dell’Occidente che una parte del blocco sovieti­co. Una «visione centroeuropea del mondo», quella qui proposta, che oggi appare ancora più preziosa e illuminante.

Milan Kundera
Un Occidente prigioniero
Premesse di Jacques Rupnik e Pierre Nora
Traduzione di Giorgio Pinotti
Adelphi Edizioni, 2022
Pagg. 85, € 12,00


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