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Pio La Torre: un impegno ancora utile per il futuro

Fabrizio Vanorio * il . Economia, Mafie, Memoria, Politica, Sicilia

A quaranta anni dall’omicidio di Pio La Torre una riflessione sulla perdurante attualità del suo impegno, dalle lotte per l’applicazione della Costituzione negli anni Cinquanta all’impegno per la pace ed alle grandi battaglie antimafia. Le grandi mobilitazioni sociali che seppe guidare e le norme di contrasto delle mafie da lui proposte restano tuttora il risultato più avanzato mai raggiunto nel processo di liberazione del Paese dalle interferenze della criminalità organizzata

Sono passati quarant’anni dall’omicidio di Pio La Torre e del compagno di partito ed autista Rosario Di Salvo. Un periodo che in questo caso ha avuto l’impatto di un’era geologica, se si pensa agli enormi mutamenti intercorsi dai primi anni Ottanta a questo primo ventennio del nuovo secolo.

La memoria dell’impegno politico ed antimafia di Pio La Torre ha rischiato di essere intaccata e cancellata, un po’ per la scarsa capacità di memoria civile della nostra società ed anche per effetto delle tante, troppe stragi ed omicidi di mafia che seguirono. Eppure, per fortuna, tantissimi giovani studenti hanno imparato a conoscere ed a diffondere opere e pensiero di La Torre.

Dobbiamo questo risultato, in primo luogo, all’impegno costante nell’analisi dei materiali storici e nelle iniziative culturali del Centro Pio La Torre e del suo infaticabile presidente Vito Lo Monaco: per decenni sono stati organizzati incontri, convegni e manifestazioni in cui i temi della lotta alla mafia sono stati declinati senza retorica, con un’attenzione costante alla promozione di un’autentica coscienza antimafia “sociale”, vissuta davvero nelle scuole e nei luoghi di lavoro e non soltanto declamata. Uno degli obiettivi che il Centro ha più tenacemente perseguito è quello dell’utilizzo sociale dei beni confiscati, finalità sempre accompagnata da un vivace dibattito giuridico ed economico sugli strumenti legali di aggressione ai patrimoni mafiosi.

Ma torniamo a Pio La Torre. C’è un senso profondo ed ancora attuale nella sua esperienza?

Innanzitutto, va ricordato che è stato il figlio di un’epoca in cui – anche grazie ai tanti corpi sociali intermedi, partiti, associazioni, sindacati, organizzazioni religiose, che allora avevano un effettivo ruolo di emancipazione dei meno abbienti e dei giovani in generale – l’ascensore sociale funzionava bene o almeno meglio di oggi.

La Torre, infatti, era il figlio di un bracciante e di una madre analfabeta che diceva negli anni ’30 «figli miei dovete istruirvi per non fare i braccianti e morire di fame». E Pio studiò, si specializzò soprattutto nelle materie connesse alla riforma dell’agricoltura, anche grazie all’aiuto del PCI, partito a cui si iscrisse a 18 anni nel 1945. A 20 anni divenne funzionario della Federterra e poco dopo anche responsabile giovanile della CGIL.

Cominciò subito a costituire una sezione del partito nella sua borgata, Altarello di Baida, per poi aprirne altre nelle borgate vicine.

Si può dire che questo sia stato il primo punto di forza della sua azione, quello di far politica rimanendo strettamente connesso al suo territorio: è proprio ciò l’elemento che manca, ciò che si rimprovera ai partiti di oggi, presenti sui vecchi e nuovi media, ma latitanti sul territorio e nelle periferie soprattutto.

Eppure, la realtà siciliana tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta non era facile, la riforma agraria Gullo, ministro dell’agricoltura che aveva promosso una normativa che assegnava ai contadini maggiori diritti e più terre da coltivare, fu svuotata da parte del successore, il democristiano Antonio Segni. Le manifestazioni dei braccianti venivano represse senza pietà dalla Celere del Ministro dell’Interno Scelba.

Pio La Torre guidava le lotte per la redistribuzione per le terre dei latifondi ed i contadini innalzavano mentre marciavano nei campi le copie della Costituzione.

Peraltro, come ampiamente dimostrato da studi approfonditi (tra i tanti Ginsborg, Saladino) non si trattava di occupazioni, quanto di legittime rivendicazioni sulla base delle leggi di riforma agraria.
Un espediente a cui ricorrevano gli agrari per evitare la redistribuzione delle terre fu quello della coltivazione fittizia a mezzo di “bravi” (spesso mafiosi) reclutati ad hoc.

Un altro escamotage tecnico fu quello di far dirimere talune controversie da commissioni formate da tre membri: uno in rappresentanza dei proprietari terrieri, un altro per i braccianti ed un terzo, magistrato. Puntualmente, le maggioranze furono quasi sempre di 2 a 1 per i proprietari…

Già, la magistratura. In quegli anni non solo la polizia, ma anche la magistratura si muovevano in un quadro di riferimento assolutamente pre-costituzionale. Qualsiasi fermento di cambiamento veniva considerato seccamente “sovversivo”.

E fu così che, pochi giorni dopo i fatti di Melissa [1], Pio La Torre, nel frattempo tornato precipitosamente dal viaggio di nozze, insieme ad altri dirigenti del movimento dei braccianti decise di organizzare occupazioni e nuove assegnazioni delle terre nella zona di Corleone. La mattina del 13 novembre 1949 circa seimila persone all’alba della domenica si diressero verso i feudi da occupare, tra questi anche quello in cui Luciano Liggio aveva la sua azienda agricola. La prima fase dell’occupazione ebbe successo e migliaia di ettari di terreno in buona parte incolti vennero coltivati a grano. Dopo l’inverno, all’inizio del marzo del 1950 il movimento si accingeva a riprendere le coltivazioni, ma il 10 marzo 1950 a Bisacquino un corteo di contadini con alla guida La Torre viene fermato dalla polizia e nacquero scontri in cui gli agenti spararono. Nonostante il giovane politico avesse soltanto tentato una mediazione, dissuadendo, peraltro, i braccianti dai lanci di sassi, i poliziotti effettuarono arresti indiscriminati.

Anche La Torre fu fermato e condotto in carcere all’Ucciardone per occupazione abusiva e vi rimase detenuto dall’11 marzo 1950 al 23 agosto 1951 (nel frattempo gli morì la madre e non gli fu data la possibilità di vederla per l’ultima volta). Nel novembre del 1950 nacque Filippo, figlio di Pio e Giuseppina Zacco, che portò il bambino in fasce in carcere, ma non le fu concesso di incontrare il “detenuto politico” ed il neonato fu portato al padre in cella da un agente penitenziario.

Il 21 agosto 1951 dopo 17 mesi di carcere La Torre venne condannato a 4 mesi e 15 giorni di reclusione…  Solo in sentenza i giudici si accorsero che per alcuni reati mancava addirittura la querela.

Dalla metà degli anni ’50 l’orizzonte dell’impegno si allargò, divenne “cittadino”: La Torre divenne consigliere comunale e poi regionale, nel 1959 segretario regionale della Cgil, nel 1962 del PCI siciliano.

Ma la passione e le tensioni ideali lo conducevano ben oltre le pur importanti vertenze locali, basti pensare che le sue prime iniziative nel movimento per la pace risalgono al 1952, con la campagna di firme a favore dell’appello di Stoccolma [2], lanciato dal movimento internazionale per la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche.

E poi ci fu l’immersione nella “questione mafiosa”, problema tutt’altro che locale o meridionale, come a distanza di più sessant’anni ormai abbiamo compreso.

Pio La Torre lo capì molto presto, realizzò che la prepotenza mafiosa nelle campagne in città diveniva accumulazione economica mafiosa: speculazione edilizia, controllo dei mercati, interferenze nei traffici portuali, estorsioni nel commercio.

Ma soprattutto bisognava comprendere l’eterno bisogno di referenti politici dell’organizzazione mafiosa. La mafia, infatti, non può mai assurgere ad un vero controllo del territorio, se non riesce a rapportarsi ed a stringere patti con settori del potere costituito.

Così La Torre definiva il fenomeno «la compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)… La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti».

Più in particolare, egli riuscì a decifrare il sistema di potere che stava dietro al sacco di Palermo [3], ma soprattutto ebbe il coraggio di denunce pubbliche e circostanziate.

Già il 26 gennaio 1960, scriveva: «Ognuno deve dire quello che sa. Io personalmente appena si aprirà l’inchiesta giornalistica [dell’Ora, a quel tempo i giornalisti precedevano e non seguivano la magistratura, n.d.r.], mi impegnerò ad intervenire (…) – sui rapporti tra il Comune e le imprese appaltatrici meglio conosciute come le “quattro grandi” (Vaselli, Cassina, Trezza, SGES) – sul modo in cui il sindaco Lima concepisce i rapporti con il personale e sulla corruzione che viene promossa negli uffici del Comune».

Dunque, nomi e cognomi, fatti circostanziati, molti anni prima che intervenisse la magistratura [4].

Lo stesso coraggio, la stessa intransigenza dimostrò in Parlamento. Nel 1972 viene eletto alla Camera dove resterà per tre legislature, sempre nel gruppo del Partito comunista italiano, svolgendo un ruolo fondamentale nella Commissione Antimafia, ma occupandosi anche di altri temi fondamentali, come la programmazione economica ed i problemi del Mezzogiorno.

Senza dubbio uno dei “lasciti” ancora attuali di quella stagione politica fu la Relazione di minoranza in Commissione Antimafia del 1976.

Una relazione in cui, ancora una volta, La Torre fu molto chiaro, anche grazie ad un compagno di lavoro come Cesare Terranova, come è noto il magistrato a cui si devono le prime indagini sulla struttura di vertice e sui collegamenti con le istituzioni della mafia palermitana. Terranova, infatti, pur trovandosi a vivere nell’epoca difficile della lotta alla mafia senza collaboratori di giustizia, riuscì a comprendere il carattere unitario dell’organizzazione mafiosa, individuando anche quel peculiare gruppo direttivo di Cosa Nostra chiamato “Commissione” [5], che fu disvelato compiutamente solo da Buscetta a Giovanni Falcone vent’anni dopo.

Pio La Torre fu il primo firmatario della relazione di minoranza, che metteva in luce, tra le proteste vibranti di vari esponenti della maggioranza, i rapporti con la mafia di politici ed esponenti delle istituzioni, in particolare della Democrazia Cristiana.

Quel testo è ancora oggi una miniera d’informazioni per chiunque voglia capire cosa sia stato – e cosa sia ancora – il potere delle mafie in Italia:

–  in primo luogo, dopo un’esauriente ricostruzione storica, si metteva in luce il ruolo dei professionisti del riciclaggio, quelli a cui oggi attribuiamo l’etichetta (un po’ abusata) di “zona grigia”, anche in questo caso attribuendo ruoli e responsabilità precise, ad esempio al commercialista di Riina Pino Mandalari [6];

–  si passava, poi, a riflettere con grande acume sulle relazioni tra l’organizzazione mafiosa e quelle eversive di estrema destra nell’ambito della strategia della tensione, con interrogativi come questo: «È casuale la fuga di Leggio nel novembre del 1969 — alla vigilia della strage di Piazza Fontana — e il suo scegliere Milano come base operativa?» [7];

– i firmatari analizzavano in seguito storia e struttura del vero e proprio «sistema di potere» retto dal ministro Giovanni Gioia, a cui si imputava testualmente di aver organizzato «la confluenza nel suo partito delle cosche mafiose ex monarchiche, liberali e qualunquiste» [8]. E tali accuse non erano affatto frutto di facile sociologia, bensì scaturivano da una lettura certosina di atti a giudiziari e rapporti di polizia, tra cui il noto rapporto dei Carabinieri a firma del generale Dalla Chiesa sulle speculazioni del costruttore Vassallo con l’avallo del sindaco Lima. E proprio alla figura di Salvo Lima ed al suo potere crescente di “proconsole” in Sicilia della corrente di Giulio Andreotti la relazione dedica pagine ancora oggi illuminanti, con parole molto nette sui rapporti tra l’importante uomo politico ed i capimafia Angelo e Salvatore La Barbera, oltre che con Tommaso Buscetta [9];

– incisive e circostanziate erano anche le denunce degli abusi di Vito Ciancimino, definito senza mezzi termini come «personaggio, esponente delle cosche mafiose di Corleone» [10], nonché le riflessioni sullo scandaloso affidamento a trattativa privata all’impresa di Arturo Cassina per ben 36 anni del servizio di manutenzione stradale del comune di Palermo [11].

In definitiva, ci rimangono pagine memorabili di denuncia ed analisi su una stagione di scempi, che aveva asservito letteralmente un’intera città agli interessi di pochi.

Non ci furono però solo coraggiose denunce da parte di Pio La Torre: alla relazione si accompagnò la proposta di legge «Disposizioni contro la mafia», tesa a migliorare la legge 575/1965 sulle misure di prevenzione e ad introdurre nel codice penale l’incriminazione dell’associazione mafiosa in quanto tale con l’art. 416 bis. Furono progressi enormi nel percorso di liberazione del Paese dal potere delle mafie.

Possiamo, allora, rispondere alla domanda iniziale: l’impegno di Pio La Torre non è un nobile ricordo del passato, è ancora tra noi, ci porta frutti costanti, in primo luogo la possibilità di colpire le associazioni mafiose per il semplice fatto di essersi organizzate in modo pericoloso per le istituzioni democratiche. E possiamo colpirle sia sotto il profilo personale, che dal punto di vista dell’accumulazione patrimoniale. Più che per le pene detentive, che prevedevano un massimo di dieci anni, i mafiosi si spaventarono per l’obbligatoria confisca dei beni prevista dalla proposta La Torre.

E fu proprio per questo forte allarme, che suscitarono le sue iniziative legislative in Cosa Nostra, che Pio La Torre non riuscì a vedere l’approvazione della “sua” legge [12].

Ma l’aspetto più interessante della figura di La Torre è che anche lo straordinario impegno contro la mafia non esaurì il suo campo di azione.

L’ultima sua battaglia, infatti, fu di rilievo internazionale per la grande questione della pace.

Dopo l’accordo dell’agosto del 1981 tra l’Italia e la Nato per l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso in provincia di Ragusa, La Torre, anche grazie alla sua enorme capacità di trascinare e mobilitare anche gli studenti ed i giovani in generale, riuscì a raccogliere milioni di firme – come già aveva fatto trent’anni prima – ma soprattutto ad organizzare l’11 ottobre 1981 e poi il 4 aprile 1982 due grandi manifestazioni: nella seconda arrivarono in quel remoto angolo di Sicilia ben ottantamila persone e la giornata si concluse con un concerto degli Inti Illimani. In un articolo, purtroppo uscito postumo su “Rinascita” del 14 maggio 1982 scrisse che la Sicilia non poteva diventare un «avamposto di guerra».

E ancora una volta quelle sue parole interpellano noi uomini del 2022, mentre si discute di innalzamento delle spese militari …

Pochi giorni dopo la grande mobilitazione di Comiso, il 30 aprile 1982, Pio La Torre fu assassinato in piazza Turba a Palermo insieme all’autista e grande amico Rosario Di Salvo, che provò anche a sparare contro il gruppo omicida.

Questa volta la magistratura, finalmente rinnovata rispetto alla casta chiusa degli anni ‘50, ha fatto il suo dovere e, dopo un primo processo, dove furono condannati i mandanti, cioè i componenti della commissione di “cosa nostra”, da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano a Michele Greco, Pippo Calò ed altri, sono stati condannati anche due degli esecutori Giuseppe Lucchese e Antonino Madonia, oltre al collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza, che ha consentito di conoscere ulteriori tasselli di verità, mentre è deceduto l’altro esecutore Pino Greco.

Gli atti del processo ci restituiscono spaccati davvero tristi della Sicilia di quegli anni: ai militari che uscirono in strada dalla caserma sita proprio nella piazza dell’omicidio fu dato l’ordine di rientrare immediatamente all’interno…

Mi piace però ricordare che ancora una volta Pio La Torre riesce ad essere rivoluzionario, a ribaltare quel senso di sconfitta che gli omicidi mafiosi imprimevano nei cittadini onesti.

Al suo funerale, infatti, una grande folla di giovani, sventolando banconote da mille lire in segno di protesta, fischiò i dirigenti della Regione ed il notabilato democristiano giunto ipocritamente alla cerimonia: fu senz’altro una delle tappe fondative di quel movimento antimafia, che svolse un ruolo essenziale nel corso degli anni Ottanta e nel terribile 1992. Enrico Berlinguer dal palco di piazza Politeama spiegò con chiarezza che La Torre era stato assassinato perché aveva denunciato il sistema politico-mafioso, ma soprattutto perché aveva posto le premesse per abbatterlo.

In definitiva alla domanda iniziale possiamo rispondere di sì: Pio La Torre resta assolutamente moderno, contemporaneo, come testimoniano tutte le questioni da lui affrontate con tenacia e spirito d’innovazione e che si ripropongono oggi, dall’antimafia tradita alla pace in Europa rimessa in discussione.

Alla fine, ci restano e ci danno forza le sue foto, le immagini dei video in cui emerge un autentico uomo del sud, un siciliano sorridente anche in tempi difficili, che, come ha ricordato in un documentario di qualche anno fa uno dei tanti giovani che lo seguivano ovunque, quando andava a Roma per le sessioni parlamentari, metteva nelle tasche della giacca dei fiori raccolti a casa sua, per non dimenticare mai il profumo della Sicilia. Una Sicilia che forse più di chiunque altro ha contribuito a liberare, per il vasto popolo che i suoi messaggi hanno saputo raggiungere.

Note

[1] A Melissa, oggi in provincia di Crotone, le proteste dei contadini erano state represse con estrema durezza e si registrò l’uccisione da parte delle forze dell’ordine di tre persone, tra cui un quindicenne ed una donna ed il ferimento di altre quindici, oltre a numerosi arresti.

[2] L’appello di Stoccolma fu lanciato dal movimento internazionale per la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche. Dopo il primo congresso del Consiglio mondiale della pace, svoltosi appunto a Stoccolma dal 15 al 19 marzo 1950, furono raccolte nel mondo più di 519 milioni di firme, di cui quasi 17 milioni in Italia.

[3] Nel 1956 Salvo Lima e Vito Ciancimino, che aderirono alla corrente politica di Amintore Fanfani nella Democrazia Cristiana e divennero sostenitori di Giovanni Gioia, vennero eletti consiglieri comunali a Palermo: Lima divenne assessore ai lavori pubblici e mantenne la carica fino al luglio 1959, quando venne eletto sindaco di Palermo e gli subentrò Ciancimino nella carica di assessore. In particolare, durante il periodo in cui Ciancimino fu assessore ai lavori pubblici, delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 risultarono intestate a tre prestanome, che vivevano in modeste condizioni economiche. Nel 1961, sempre durante l’assessorato di Ciancimino nella giunta del sindaco Lima, vari costruttori legati ad esponenti mafiosi ottennero in pochi giorni licenze edilizie, che consentirono loro di demolire edifici di pregio in stile liberty edificati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, per poi costruire nuovi palazzi in spregio alle norme del nuovo piano regolatore, attraverso il sistema delle “varianti” di comodo, spesso letteralmente comprate con accordi corruttivi.

[4] Per Salvo Lima, ad esempio, furono avanzate quattro richieste di autorizzazioni a procedere per peculato, interesse privato e falso ideologico, ma rimasero senza esito. Solo dopo il suo omicidio del 12 marzo 1992, com’è noto prodromo della stagione delle stragi, le sentenze (tra cui quella definitiva del processo Andreotti) affermarono con chiarezza i suoi collegamenti con Cosa nostra.

[5] In un capo di imputazione (formulato nel lontano 1965) del processo di Catanzaro istruito da Terranova si era, infatti, contestato espressamente ad alcuni imputati: «… di aver formato una commissione di mafia, che decideva le sorti dei mafiosi».

[6] Così il testo della Relazione di minoranza dei deputati La Torre ed altri, in Legislatura VI — Disegni di legge e relazioni – Documenti, 1976, pag. 567 e ss., a pag. 583: «Il commercialista palermitano Pino Mandalari (candidato del MSI alle elezioni politiche del 1972) ospita nel suo studio le società finanziarie di alcuni fra i più noti gangsters tra cui ‘Salvatore Riina, braccio destro di Leggio, e il Badalamenti di Cinisi, nonché quelle di padre Coppola. Tali società intestate a dei prestanome si occupano delle attività più varie (dall’acquisto dei terreni ed immobili come beni di rifugio alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini)».

[7] Relazione di minoranza, cit., pag. 583.

[8] Relazione di minoranza, cit., pag. 584. (9)  Così nel testo cit., pag. 596: «Restando nell’argomento delle relazioni è certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato, conoscevano l’ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori». Gli elementi di prova di tali rapporti venivano tratti dalla famosa sentenza del Giudice Istruttore del Tribunale di Palermo del 23 giugno 1964 contro La Barbera + 42: il giudice estensore era Cesare Terranova.

[9] Così nel testo cit., pag. 596: «Restando nell’argomento delle relazioni è certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato, conoscevano l’ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori». Gli elementi di prova di tali rapporti venivano tratti dalla famosa sentenza del Giudice Istruttore del Tribunale di Palermo del 23 giugno 1964 contro La Barbera + 42: il giudice estensore era Cesare Terranova.

[10] Così a pag. 597.

[11] Relazione di minoranza, cit., pag. 598-9.

[12] Purtroppo, l’approvazione della legge “Rognoni-La Torre” (legge n. 646 del 13 settembre 1982, recante all’art. 1 l’introduzione dell’art. 416 bis c.p. ed agli articoli 10 e seguenti le disposizioni sulle misure di prevenzione) seguì non solo l’assassinio del 30 aprile 1982, ma anche l’agguato del 3 settembre 1982 in cui, come è noto, caddero il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro. Come si è detto, l’architrave della legge fu la proposta di legge n. 1581 presentata alla Camera il 31 marzo 1980, primo firmatario Pio La Torre, che conteneva tutte le norme fondamentali poi approvate nel settembre 1982.

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