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No alla guerra con Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, 28 anni dopo la loro esecuzione

Mariangela Gritta Grainer il . Caso Alpi-Hrovatin, Criminalità, Giustizia, Informazione, Politica, Società

“… È una storia vestita di nero

… È una storia mica male insabbiata

… Non ci chiedere più come è andata

… Tanto lo sai che è una storia sbagliata”

Sono versi di una canzone di Fabrizio De’ André e Massimo Bubola “Una storia sbagliata”, dedicata a Pier Paolo Pasolini, uscita con un 45 giri nel 1980 per un documentario Rai.

Pier Paolo Pasolini, nasceva cento anni fa, è stato massacrato il 2 novembre del 1975.

Fu Miran Hrovatin a filmare le riprese del funerale qualche giorno dopo, il 5 novembre, orazione funebre Padre Maria Turoldo.

“Una storia sbagliata” anche quella di Ilaria e Miran. Mi sono sempre chiesta perché Ilaria si fosse portata proprio il libro di Pasolini “Scritti Corsari” per questa missione in Somalia, la settima in poco più di un anno. Di certo c’era una comune passione con Miran per questo “poeta civile”.

Ma forse c’era anche una specie di “profezia” che li condusse ad essere assassinati brutalmente come lui. Ilaria e Miran avrebbero voluto non solo poter dire “Io so…” ma anche “…e adesso ho le prove”. E lo avrebbero potuto dire come fa Ilaria, ad un certo punto, nel film di Ferdinando Vicentini Orgnani “Il più crudele dei giorni”.

Sullo sfondo la strada Garoe Bosaso, costruita con i fondi della cooperazione italiana, Ilaria “prova” il suo servizio della sera davanti a Miran che la riprende: “Per darvi un’idea di quanto sia utile spendere centinaia di miliardi della cooperazione in Somalia ecco…questa è la strada Garoe Bosaso una strada…che almeno è servita per coprire ogni sorta di porcherie tossiche e radioattive che l’occidente ha la buona abitudine di affidare a questi poveri disgraziati del terzo mondo, tutto con la complicità di politici, militari, servizi segreti, faccendieri italiani e somali….”.

“Io so. Io so e so anche i nomi e adesso ho anche le prove”.

Ma sono stati rubati i block notes e un certo numero di cassette, manomesse quelle ritrovate, sparito il certificato di morte, violati i bagagli, bugie e depistaggi, minacce, carte false.

Dopo 28 anni, con un paziente meticoloso lavoro (di Luciana e Giorgio Alpi e di chi li ha accompagnati, di avvocati come Domenico Damati, e di alcuni Magistrati, giornalisti, amici …), sappiamo tutto quello che è successo prima e anche dopo quel 20 marzo 1994 a Mogadiscio.

Non abbiamo raggiunto LA VERITÀ ma molti frammenti di verità che condurranno a completare il puzzle: tutta la verità assicurando alla giustizia esecutori e mandanti. E così chi ha il dovere di amministrare la giustizia in nome del popolo, la Magistratura (Art. 101 della Costituzione) potrà finalmente cercare e arrivare alle prove per verità e giustizia.

Due esempi importanti di “frammenti di verità”. Dopo 17 anni di carcere Hashi Omar Assan è stato scarcerato perché innocente, non è stato lui a uccidere Ilaria e Miran. Il tribunale di Perugia, nella sentenza, scrive anche che c’è stato un depistaggio di grande portata, iniziato immediatamente dopo l’agguato mortale, come sosteniamo da tempo con Giorgio e Luciana Alpi che non sono più con noi. Era già scritto nel libro “L’esecuzione” (1999). La sentenza è dell’ottobre 2016, le motivazioni del 17 gennaio 2017. Sono passati cinque anni, certo due di pandemia, ma tutto è rimasto fermo.

Il 20 marzo 2019, presso la Camera dei deputati, presente il Presidente della Camera dei Deputati e il Vice Presidente del CSM, abbiamo ascoltato con emozione le parole di Armando Rossitto intervistato da un giornalista. È il medico che eseguì il primo esame esterno sui corpi di Ilaria e Miran subito dopo la loro esecuzione.

Legge dal suo diario personale durante la missione, il dottor Rossitto: un colpo solo ha colpito Ilaria Alpi alla nuca il 20 marzo 1994. Quel certificato di morte di Ilaria si potrà vedere solo dopo la condanna definitiva di Hashi Omar Hassan nel 2003 e dopo la desecretazione dei documenti avviata dalle Presidenze della Camera e del Consiglio nel 2014. L’occultamento di quel certificato può essere stato alla base di un’attività di depistaggio partita fin dai primi giorni e non aver riguardato solo alcuni episodi relativi alla condanna di Hashi Omar Hassan, e forse ancora in atto (come trapela nella stessa sentenza e nella opposizione alla richiesta di archiviazione).

Questo 20 marzo 2022 ci aspettiamo che le persone che sanno che cosa è successo parlino finalmente.

Chiediamo alla Procura di Roma di aprire nuovi scenari investigativi, dopo la sentenza di Perugia, con l’obiettivo di svelare depistaggi e depistatori: unica strada per arrivare a verità e giustizia.

Noi abbiamo ricostruito tutti i passaggi compresi quelli riguardanti i sei mesi che conducono alla costruzione del classico capro espiatorio Hashi Omar Hassan, al suo arresto fino alla sua condanna definitiva a 26 anni di carcere e alla sua scarcerazione. Abbiamo tutta la documentazione (con alcuni nomi anche) in parte già pubblicata, completata da quella desecretata (comprese le audizioni delle commissioni d’inchiesta). Questo nostro lavoro consente di constatare quanto è successo: solo un atto giudiziario può stabilire “al di là di ogni ragionevole dubbio” che c’è stato depistaggio, chi lo ha pensato, organizzato e chi ne è stato coinvolto; chi ha sparato e chi ha ordinato di uccidere.

“Una storia sbagliata” è la guerra, ogni guerra: non c’è una guerra giusta. Dopo la seconda guerra mondiale e dopo Hiroshima si era pensato mai più guerra (per questo i nostri Costituenti hanno scritto l’Italia ripudia la guerra). Non è stato così. I conflitti cosiddetti locali sono stati e sono tanti. In Africa, in Asia e in Medio Oriente. Ma anche in America Latina e in Europa. Una geografia di dolore, morte e distruzione: l’80% delle vittime è composto da civili inermi donne e bambini: guerre più lontane nel tempo e nello spazio o più vicine e recenti come la Siria, l’Afghanistan diverse altre nel mondo.

Lo stiamo vedendo in questi giorni con la brutale aggressione della Russia di Putin e l’invasione dell’Ucraina. “Putin fuorilegge per il diritto internazionale”: ha anche incrinato la possibilità che i paesi nucleari aderiscano al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari, il TPNW nonostante che il 3 gennaio abbia firmato una dichiarazione insieme a Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Cina in cui si afferma che “una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta … le armi nucleari, finché continueranno a esistere, dovrebbero servire a scopi difensivi, scoraggiare l’aggressione e prevenire la guerra.” [1]

È venuto meno a un principio che impegna le potenze in possesso di armi nucleari a non minacciarne l’uso per conseguire vantaggi politici. Siamo dalla parte del popolo ucraino, accanto alle vittime, con più ansia e paura anche, perché è una guerra più vicina a noi. E molto pericolosa: potrebbe estendersi in dimensione e atrocità.

“Una storia sbagliata” è quella di Andrea Rocchelli, un fotoreporter appassionato e di talento, trentun anni, ucciso a Sloviansk nel Donbass da ripetuti colpi di mortaio sparati dall’esercito e dalla guardia nazionale ucraina: è il 24 maggio del 2014.

La notizia arriva mentre stiamo preparando il 20° premio Ilaria Alpi: una mostra con le fotografie di Andrea sarà allestita durante i giorni del premio a cui parteciperanno i genitori la compagna e il piccolo figlio. Gli ultimi istanti della sua vita sono documentati dalle foto da lui stesso scattate mentre è sotto attacco: sotto la collina di Karachun, dentro un fosso per ripararsi dalla raffica dei colpi di mortaio che lo uccidono. Insieme a lui muore Andrej Mironov, il suo amico giornalista russo. Il fotoreporter francese William Roguelon è ferito gravemente, si salva e sarà il testimone che racconta l’accaduto con la credibilità di chi può dire “io c’ero” così come Andrea con i suoi 30 scatti.

Ho raccolto in questi giorni alcuni pensieri di Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andrea.

“La paura e lo sgomento negli occhi dei bambini, delle donne e dei civili che le Tv ci mostrano in questi giorni sono gli stessi immortalati da nostro figlio: nelle foto dei bambini ucraini stipati “sepolti” in bunker sotterranei tra barattoli di cibo, per proteggerli dai bombardamenti. Fa male vedere ancora, otto anni dopo, la perversa ripetizione di una storia tragica che si specchia di nuovo negli occhi dei bambini. … Condanniamo la spietata invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin e siamo dalla parte della popolazione che la subisce. Quanto accade conferma l’intuizione di nostro figlio che quella zona fosse cruciale per il futuro del continente. Andrea era amico dell’Ucraina e degli ucraini, operava con l’ong “Soleterre” di Milano che si occupa di oncologia pediatrica”.

“Sulla vicenda giudiziaria: Vitalj Markiv, cittadino italiano militare della guardia nazionale ucraina, è stato condannato in primo grado per concorso in omicidio plurimo; in appello è stato assolto per vizio di forma confermato in Cassazione. Ma la Magistratura italiana in tutti e tre i gradi di giudizio ha cristallizzato che si è trattato di un crimine di guerra commesso dall’esercito ucraino. Questi i fatti: è giusto ricordarli anche in momenti delicati come questo. Resta confermato l’impianto delle sentenze di primo e secondo grado che indica nell’Ucraina il Paese che ancora detiene i segreti dell’esecuzione dei giornalisti”. 

“C’è una rinnovata amicizia fra Italia ed Ucraina, agìta concretamente con aiuti a chi resiste e a chi lascia il paese, milioni di persone, in queste settimane. Appena sarà possibile, fra i due stati la vicenda dovrà essere chiarita perché finalmente giustizia sia fatta … Il nostro obiettivo non è la vendetta ma la volontà che quanto accaduto il 14 maggio 2014 venga riconosciuto come un crimine di guerra e non rimanga impunito…. Perché è gravissimo che due giornalisti siano stati uccisi e molti altri continuino a morire come sta succedendo anche in questi giorni mentre svolgono il loro lavoro prezioso.”

“L’informazione è il primo strumento che abbiamo. Un’informazione che non serve a sostenere la politica ma a renderci consapevoli di quello che abbiamo e anche di che cosa non possiamo perdere”. (David Sassoli )

Queste storie sbagliate che sto raccontando hanno una radice comune: la guerra.

“Cities stand with Ukraine” lo slogan della grande manifestazione che si è svolta sabato 12 marzo a Firenze, con l’appello del Sindaco Dario Nardella, accolto da almeno altre cento città in Europa.

Su un grande striscione con i colori della pace sostenuto da molti giovani era scritto: “Immaginiamo la pace”. Mi sembra una premessa per costruirla.

“Immaginare e costruire la pace affermare i diritti la libertà e l’autodeterminazione di tutti i popoli” significa cercare e trovare modalità nuove, diverse dalla guerra, eticamente riprovevole e in ogni caso fallimentare ovunque, come ha cercato di farci capire con la riflessione e l’esempio della sua vita Gino Strada. [2]

Fermare subito i massacri prima che sia troppo tardi. Il mondo si trova su un crinale molto pericoloso. I mutamenti che sono avvenuti nella geopolitica vedono le grandi potenze cercare nuovi territori di influenza la cui pericolosità si vede nella Ucraina colpita a morte.

È il momento perché l’Europa rafforzi il suo profilo di pace che è la vera potenza per affrontare le nuove sfide a partire da questa guerra: Europa protagonista, potenza di pace. Con le grandi potenze Usa Cina Russia. Ci sono diverse iniziative diplomatiche, non ultima quella dei tre Presidenti (polacco, ceco, sloveno) in missione a Kiev.

Perché la via diplomatica politica possa affermarsi rapidamente sono necessarie due cose, secondo me: che ci sia un cessate il fuoco durante le trattative, corridori umanitari sicuri e un terzo soggetto autorevole che agevoli una mediazione tra le parti in conflitto: potrebbe essere una delegazione europea in grado di parlare direttamente con Putin e con Zelensky.

Il Presidente Romano Prodi ha di recente dichiarato: “Questa guerra tragica e orrenda non è già più solo locale … tocca il mondo intero e può finire solo con un accordo Cina Stati Uniti. … Certo che bisogna parlare anche con Putin. A parlare con San Francesco son buoni tutti, è parlare col lupo che è un problema … ci vuole un accordo tra Cina e USA …”. L’Europa può entrare in campo.

“Una storia sbagliata” questa guerra. Mi sono chiesta in questi giorni come Ilaria l’avrebbe raccontata. E ho ripensato al racconto che Giorgio Alpi mi fece per spiegarmi perché Ilaria decise di andare a Mogadiscio la prima volta e di passarvi anche Natale e capodanno (20 dicembre 1992/10 gennaio 1993).

Erano giunti in Somalia da pochi giorni i primi elementi di ricognizione del nostro contingente militare in base alla decisione del Parlamento Italiano di partecipare alla missione internazionale. Il 9 dicembre 1992 erano sbarcati per primi i marines americani in modo spettacolare e con le TV di tutto il mondo appostate sulle spiagge: una risposta allo shock delle immagini dell’immane tragedia somala che erano entrate in tutte le case nei mesi precedenti.

Gennaio 1991 cade e fugge Siad Barre, un sanguinario dittatore corrotto sostenuto e foraggiato dall’occidente e anche dall’Italia fino all’ultimo. La Somalia precipita in una guerra civile disastrosa: cinque milioni di somali divisi in sei etnie, cinquanta clan e oltre 200 sottoclan. I clan le faide tribali i signori della guerra sono i nuovi padroni. Le conseguenze per la popolazione già stremata e poverissima sono èsodi, carestie, epidemie, criminalità contrabbando: un terreno fecondo per faccendieri e trafficanti di ogni tipo.

Davanti a quelle immagini: di donne bambini feriti massacrati affamati, ammalati Ilaria decide che deve andare là. Deve capire, conoscere, informare. (e infatti ci andrà in poco più di un anno sette volte).

È attraverso i ricordi di Giorgio e di Luciana che ho scoperto molte cose di Ilaria, le cose forti, gli ideali, i valori l’amore per il suo lavoro.

Ilaria Alpi una giornalista integerrima. Svolgeva il suo lavoro come una missione: far conoscere le cose come stanno, far capire alle persone, oltre l’apparenza, come si svolgono i fatti del mondo.

Approfondiva, Ilaria, non si accontentava mai di una versione sola, andava a scavare per raggiungere la verità dei fatti, soprattutto se quei fatti riguardavano la violazione dei diritti delle donne e degli uomini.

La sua voce era diventata, nei primi anni ’90, la voce della Somalia, non del governo o delle missioni internazionali, ma della Somalia dolente e violentata, che pagava ogni giorno tributi di sangue alla guerra fratricida e agli interessi internazionali che la flagellavano. Proprio per la sua volontà di approfondire i fatti Ilaria ha iniziato a seguire “una pista” pericolosa, che ha segnato la sua morte.

Non ha mai pensato di lasciar perdere, di limitarsi per prudenza, di riportare solo la cronaca in maniera superficiale, no.

Ilaria ha voluto approfondire, intervistare, prendere appunti, andare a fondo nella storia d’illegalità e traffico di armi e di rifiuti che subiva la popolazione somala. Una storia che non ha mai potuto raccontarci.

Dunque Ilaria sarebbe lì, in Ucraina, a raccontare.

Note

[1] Evocando Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov a Reykjavík dichiarare che “una guerra nucleare non poteva essere vinta e pertanto non doveva mai essere combattuta”; nel dicembre del 1987, a Washington, firmare il Trattato INF (Intermediate Nuclear Forces) che portò all’eliminazione e distruzione di tutti i missili Cruise, PershingII e SS-20 con gittata tra 500 e 5.500 Km, avviando nelle intenzioni il cammino verso la fine della “Guerra fredda”: sappiamo come è andata. Dopo l’undici settembre 2001 si è riprovato con il Trattato New START (Strategic Arms Reduction Treaty ovvero ”Measures for the Further Reduction and Limitation of Strategic Offensive Arms.”), entrato in vigore nel febbraio 2011 con la firma di Barack Obama e Dmitrij Nedvedev. Trattato scaduto nel 2021, con impegno di proroga per cinque anni (Joe Biden e Vladimir Putin): ridotte le testate nucleari che restano comunque troppe.

[2] Un esempio. L’appello di 50 premi Nobel (tra i quali: Giorgio Parisi, Carlo Rovelli e Carlo Rubbia) rivolto ai governi di tutti gli Stati delle Nazioni Unite propone una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno. E con quelle risorse “prendersi cura” del pianeta e delle disuguaglianze insopportabili. La spesa militare, a livello globale, è arrivata a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno. La corsa agli armamenti conduce a un’unica conseguenza: lo scoppio di guerre sanguinose e devastanti.

Fonte: Articolo 21

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