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PPP ha 100 anni. Quell’«io so» ci parla ancora

Gian Carlo Caselli il . Corruzione, Criminalità, Cultura, Informazione, Mafie, Memoria, Politica

Pier Paolo Pasolini è stato attaccato, spesso anche censurato, per le sue idee: odiato da molti, amatissimo da altri.

Personalmente appartenevo alla seconda categoria. Apprezzavo in modo particolare i saggi che poi sono confluiti in una raccolta (Scritti corsari) pubblicata postuma. Fra questi un famoso editoriale del Corriere della sera (14 novembre 1974) intitolato «Cos’è questo golpe? Io so», nel quale Pasolini in sostanza sosteneva di sapere i nomi dei responsabili di tutto quel che era successo dopo il ’68 (golpe e stragi), ma che non poteva rivelarli perché non aveva le prove.

A suo tempo «Io so» mi aveva talmente colpito che in pratica lo avevo imparato a memoria. D’intesa con gli amici di Rocca lo vorrei riprendere oggi, perché Pasolini ci parla ancora, al punto di evocare (Fabrizio Gifuni) l’immagine di un «corpo mai sepolto».

Il nucleo di «Io so» è un  vero e proprio inno alla libertà di stampa e al ruolo civile degli intellettuali; nello stesso tempo è un ammonimento a rispettare fino in fondo tale ruolo. Parole oggi ancora «vive»,  se è vero che persiste un vizio antico del nostro Paese: preoccuparsi non tanto del male o del marcio che può esservi, quanto piuttosto di chi osa denunziarlo. A qualcuno il silenzio piace, e nell’informazione come nel dibattito culturale (specie in tema di amministrazione della giustizia) il parametro di valutazione preferito è spesso quello dell’utilità per sé o per la propria cordata, non certo quello del rigore e della verità. Esattamente l’opposto di quel che voleva Pasolini .

A quel «vizio antico» di recente se n’è aggiunto un altro, che consiste in una mescolanza di radicalismo verbale e nullismo pratico, fino ad oscurare  la realtà. Mi riferisco a coloro che propagandano le proprie convinzioni soggettive «no vax» accampando argomenti (si fa per dire…) come la dittatura, il genocidio della shoah, il nazismo e le SS, acronimo di «siero sperimentale»…. Magari con il sostegno di personaggi eccellenti che intervenendo nel dibattito non si rendono conto di giocare col fuoco. Anch’essi sembrano dire «Io so», ma manca loro il «coraggio intellettuale della verità» che è il cuore del ragionamento di Pasolini.

L’apprezzamento di fondo dell’editoriale di Pasolini consente alcune osservazioni.

Là dove Pasolini parla di «due differenti , anzi, opposte fasi della tensione (una prima fase anticomunista – Milano 1969 – e una seconda fase antifascista – Brescia e Bologna nel 1974 -)» si può dire che ormai è certo come tutte queste stragi fossero di matrice ed esecuzione fascista. In un contesto di «attentati alle istituzioni e stragi» ad opera di un «gruppo di potenti» impegnati in una «crociata anticomunista» e che utilizza malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione come killer o sicari nella crociata, si potrebbe iscrivere anche Portella della Ginestra.

La strage di Portella del 1° maggio 1947 rappresenta il culmine di un attacco organizzato e sistemico contro il movimento contadino, che con la sua coraggiosa resistenza scrisse una pagina davvero epica della nostra storia nazionale. Mafiosi, agrari e politici programmarono e attuarono per anni l’uso della violenza contro i contadini e l’eliminazione fisica di quanti li appoggiavano. Oltre ai moltissimi manifestanti trucidati, ben 18 sindacalisti (comunisti, socialisti e democristiani) furono assassinati, insieme a 15 fra sindaci, segretari di camere del lavoro e politici. Un disegno criminale culminato proprio nella strage di Portella con il suo esito crudele di 11 morti e 56 feriti.

Ma tale eccidio va ricondotto a un disegno criminale ancora più ampio ed eversivo, che si può vedere mettendo in sequenza alcuni fatti.

A Portella qualche migliaio di persone si era riunito non solo per la festa dei lavoratori, ma per festeggiare anche la netta vittoria del Blocco del popolo (socialisti e comunisti) alle elezioni regionali del 20 aprile 1947.  Subito dopo, il 12 maggio 1947, sul piano nazionale si registrò una radicale svolta politica, con la dichiarazione del presidente del Consiglio De Gasperi di cessata adeguatezza alle esigenze del governo della formula dell’unità nazionale fin lì applicata. In sostanza, si sanciva la fine della collaborazione con il partito socialista e con quello comunista. Intanto in Sicilia, tra il 22 e il 23 giugno, si verificarono vari attentati contro le sedi del Partito comunista di Partinico (due morti e quattro feriti), Carini, Borgetto, San Giuseppe Jato, Monreale e Cinisi.

Se la storia del movimento contadino risulta «governata» da due regole base (il ricorso alla violenza contro ogni tentativo di riforma e l’impunità di violenti e mandanti), dopo Portella le cose non cambiano. Perché fin da subito venne imposta una verità ufficiale, ben lontana dalla realtà. Infatti, già il 2 maggio 1947, davanti all’Assemblea costituente, il ministro dell’Interno Mario Scelba dichiarava che dietro l’episodio non vi era alcuna finalità politica o terroristica, ma che esso doveva essere considerato un fatto circoscritto. E ciò nonostante i cinquant’anni di storia del movimento contadino conclamassero una realtà ben diversa e complessa, fatta non di episodi circoscritti, ma di strategie e intrecci torbidi tra forze diverse.

Dunque Portella è storia di una strage del 1947 in cui la «crociata anticomunista» di cui parla Pasolini e la mafia vanno a braccetto. Ecco perché Portella può essere ricordata insieme alle stragi fasciste  di Milano, Brescia e Bologna del 1969-74.

Ancora un’osservazione. Pasolini (come abbiamo visto) scriveva «io so i nomi dei responsabili» di questo e quel fatto grave,  ma non ho «né prove né indizi» per poterli fare.

Ebbene, per quanto riguarda un cancro della nostra democrazia, il contubernio fra criminalità e pezzi della politica, oggi abbiamo spesso i nomi, abbiamo anche le prove: ma invece di parlarne si preferisce negare tali rapporti o nasconderli.

La Procura di Palermo, negli anni dopo le stragi del 1992, ha istruito vari processi verso uomini politici eccellenti. Due nomi per tutti: Giulio Andreotti e Marcello dell’Utri.

Ambedue i processi si sono conclusi in Cassazione; nel primo caso con affermazione di responsabilità penale fino al 1980 per aver «commesso» il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra (reato  dichiarato «commesso» in base  a prove sicure ma prescritto per il troppo tempo decorso fra il fatto e la sentenza); nel secondo caso l’imputato è stato condannato a una pena severa per concorso esterno in associazione mafiosa. Tuttavia, la risposta di gran parte della politica e dell’informazione è stata di negare o distorcere la verità, cancellare o ignorare i gravissimi fatti concreti posti a fondamento dei due processi. Il che equivale a svuotare di significato l’intreccio osceno di rapporti tra mafia e politica che dai processi chiaramente emerge.

La mafia viene ridotta a fenomeno localistico, articolatosi quasi soltanto sul terreno degli appalti pubblici per motivazioni di tipo meramente economico, addebitabili agli appetiti di singoli esponenti del ceto politico-amministrativo. Una «mala-politica» locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale. Per contro, la lettura degli atti e delle sentenze dei processi Andreotti e Dell’Utri non sancisce affatto la cronaca di una modesta e arretrata realtà periferica, ma i tempi – appunto – della storia nazionale: spesso con i connotati di una tragedia con orride cadenze di morte.

Questo «negazionismo» della realtà dei rapporti fra mafia e politica, che si vorrebbero in pratica inventati da indagini creative e quindi inquinate, determina di fatto una legittimazione di tali rapporti: non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro.

Di qui un paradosso. Se oggi potessimo avere ancora uno «Scritto corsaro» come quelli di Pasolini, forse potremmo trovarvi una frase del tipo: Io so i nomi dei responsabili di alcuni fatti gravi e conosco le prove raccolte, per cui i nomi li faccio. Ma se poi non succede nulla, è praticamente inutile farli! Con il corollario che le cose per la buona salute della nostra democrazia non vanno troppo bene. Neanche oggi.

Chiudo con un interrogativo. A chi si riferiva  Pasolini, nel suo «Io so», menzionando coloro che «tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione» per nefandezze varie?

Fonte: Rocca n°05 – 1 marzo 2022

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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