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Al nuovo capo Dap: l’ergastolo ostativo non va toccato

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica, Società

Ho guidato il DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) per un paio d’anni. È stata – francamente – l’esperienza più difficile della mia vita professionale.

La maggiore difficoltà nasceva dalla constatazione che i problemi e le complessità del carcere (soprattutto il sovraffollamento) avevano la conseguenza di infliggere al detenuto una sofferenza in più oltre a quella “fisiologica” della privazione della libertà. Un di più in contrasto con i principi della nostra Costituzione. Questa quotidiana constatazione era causa di un disagio che moltiplicava la mia inadeguatezza. Nello stesso tempo, a fronte delle falle dell’universo carcerario, ho apprezzato la grande crescita professionale e culturale del personale addetto e in particolare della polizia penitenziaria. Una realtà che le ombre (anche gravi) talora registrabili non possono cancellare.

Tanto premesso, a Carlo Renoldi, destinato secondo i media ad essere il nuovo capo del Dap dopo le dimissioni di  Petralia, gli auguri più sinceri di  un  buon lavoro: che possa svolgersi  con la collaborazione convinta di tutte le forze interessate, anche di quelle sigle sindacali che secondo Renoldi avrebbero un atteggiamento miope declinando la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa.

Queste parole fan parte di un intervento di Renoldi del 29.7.2020 in un convegno sul carcere a Firenze, del quale vorrei commentare alcuni passaggi tratti dall’interessante resoconto di Antonella Mascali sul Fatto del 27 febbraio.

La mia opinione in tema di carcere ostativo l’ho esposta anche su questo giornale, ed è decisamente diversa da quella di Renoldi e di quanti plaudono al sostanziale svuotamento dell’ostativa per i mafiosi che non abbiano collaborato con la giustizia. So bene che il mio punto di vista è di quelli che spingono gli zelanti garantisti a brandire come un cartellino rosso, di espulsione dal dibattito, l’accusa di giustizialismo.

E tuttavia resto della mia opinione, mentre mi conforta scoprire l’esistenza di una categoria nuova, quella dei “giustizialisti democratici”, coi quali Renoldi vorrebbe riannodare i fili del dialogo.

Io penso che il valore dell’art. 27 della Carta (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) sia incontestabile. Ci mancherebbe. Ma quando si tratta di mafiosi irriducibili non pentiti vanno considerati alcuni dati di fatto.

Il mafioso giura fedeltà perpetua all’organizzazione e il suo status di mafioso è per sempre. Lo dicono l’esperienza e i più qualificati studi sulla mentalità mafiosa.

Il mafioso non pentito con­tinua a essere convinto di appartenere a una “razza” speciale, nella quale rientrano soltanto coloro che sono davvero uomini (non a caso autodefinitisi “d’onore”). Tutti gli altri, quelli del mondo esterno, sono individui da assogget­tare. Non persone ma oggetti, esseri disumanizzati.

Tanto premesso, alcuni interrogativi.

Si può dire che il pentimento risulta essere l’unica condotta univoca, l’unica dimostrazione affidabile di voler disertare davvero  dall’organizza­zione criminale, cessando di esserne strutturalmente parte? Si può dire che senza pentimento la decisione si riduce ad un  pericoloso salto nel buio? In  altre parole, si può ritenere che il “doppio binario” per i mafiosi non pentiti (fino all’ergastolo ostativo) sia rispondente a criteri di ragionevolezza basati sulla concreta specificità del  problema mafia?

Vero è che la Consulta non la pensa così. Nel  film Il rapporto Pelican una studentessa (interpretata da Julia Roberts) al professore che le chiede perché la Corte suprema non abbia deciso una questione secondo la sua opinione, risponde “forse perché la Corte ha sbagliato…”.

Non oso arrivare a tanto, va da sé. Posso però augurarmi che il Parlamento riesca a trovare una “quadra” in grado  quanto meno di ridurre il danno che si profila.

Al tema dell’ergastolo ostativo Renoldi collega poi un attacco “all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri…che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile”.

Sono parole a mio avviso poco rispettose dei  tanti familiari delle vittime di mafia che ancora oggi chiedono verità e giustizia ( lo faranno nuovamente il 21 marzo a Napoli, nella giornata della memoria  e dell’impegno organizzata da Libera).

E spero che  il pensiero di  Renoldi non porti acqua al mulino di chi teme che i familiari  sbilancino, accentrandola su di sé, la trattazione dei problemi di mafia: per cui bisognerebbe incaricare esperti psicologi di rieducarli…

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 01/03/2022

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