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Se gli inquisiti celebri rifiutano i processi

Gian Carlo Caselli il . Cultura, Diritti, Giustizia, Politica, Società

In tutti i sistemi democratici ci sono interventi giudiziari che turbano equilibri politici e destini di governi: i casi Sarkozy, Netanyahu e Johnson sono lì a dimostrarlo.

In Italia (dai primi anni Novanta del secolo scorso in poi) si riscontra però una pessima anomalia: l’ostilità verso la giurisdizione, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; una sorta di impropria riedizione del cosiddetto processo di “rottura”, utilizzato però da uomini dello stato, anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi. In altre parole, una strategia di difesa “dal” processo anziché “nel processo”, che non ha nulla a che vedere con un sistema di stretta legalità.

Un’anomalia testimoniata da un Presidente degli Stati Uniti, processato da un magistrato “speciale” nominato apposta per lui, costretto a subire l’umiliazione dell’accertamento di alcune tracce organiche conservate da una stagista sul suo abito. Ma all’uomo più potente del mondo non passò mai per l’anticamera del cervello di prendersela con il suo giudice. A differenza di quel che è accaduto e accade in Italia. Per molto meno.

Le critiche – sempre assolutamente legittime: la motivazione serve proprio a questo – sono cosa ben diversa dalla proclamazione di  concetti tipo “una sentenza non può valere di più del voto di milioni di italiani…gli interventi giudiziari contro gli eletti sono eversione della democrazia” e via salmodiando. Un coro di pregiudizi ostili inaugurato una trentina di anni fa ad opera del Presidente Berlusconi e dei suoi epigoni , ma praticato anche da altri fino ad oggi.

Intendiamoci. Il “primato della politica” è incontestabile: il governo della società e il motore del vivere giusto possono stare solo in azioni politiche e non in provvedimenti giudiziari. Ma tale primato non significa soggezione della giurisdizione.

Questo principio (per lunghissimo tempo fondamentale nella cultura europea) è stato in modo esplicito abbandonato dalla nostra Costituzione. Ne deriva che l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale servono al consolidamento della democrazia, anche quando provocano conseguenze che certi politici considerano negative, soprattutto se sono portati a valutare e discutere gli interventi giudiziari col metro dell’utilità e dell’interesse anziché con quello della correttezza e del rigore.

Il conflitto  magistratura-politica, oltre a riproporsi puntale come le stagioni – quelle di una volta…- ,  assume   poi  declinazioni  che riguardano problemi specifici, come le “porte girevoli”.

Il progetto Bonafede (del quale si è discusso, pare, un parziale recupero) prevedeva  norme rigorose. I magistrati non sono candidabili praticamente a nessuna carica politica di un certo rilievo nella zona in cui esercitano le funzioni o le hanno esercitate negli ultimi due anni. Se non eletti, sono ricollocati fuori della zona di provenienza per tre anni e non possono assumere ruoli direttivi nonché di PM o GIP. I magistrati eletti, alla fine del mandato sono collocati in un ruolo apposito di un ministero o della presidenza del consiglio.

A mio avviso questa linea draconiana è quella giusta e soprattutto necessaria.

Piuttosto, per non essere accusati di usare due pesi e due misure, il problema delle “porte girevoli” andrebbe affrontato anche per i magistrati amministrativi, non soltanto per gli odiosi magistrati ordinari.

Fonte: La Stampa

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