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La politica della droga e il “referendum cannabis”

Riccardo De Vito * il . Criminalità, Diritti, Droga, Istituzioni, Mafie, Politica, Società

Tra passioni civili e silenzi della politica, un tentativo di analizzare il contenuto della proposta referendaria alla luce delle opposte visioni che, a livello globale, si contendono il campo della politica delle droghe.

1. Frankenstein, la cannabis e i toni del dibattito 

«Se il terribile mostro Frankenstein si trovasse faccia a faccia con la marijuana, cadrebbe morto di paura».

A metterla giù così, negli anni Trenta del secolo scorso, è Harry J. Anslinger, potente capo del Federal Bureau of Narcotics americano, campione della «chiesa della proibizione»[1] e artefice della guerra alla cannabis. Oltre alla prima legge in tema[2], si deve a lui lo stratagemma ideologico di introdurre nel linguaggio delle leggi e dei giornali americani l’espressione marijuana, utilizzata dalle criminalizzate minoranze messicane e ispaniche, in luogo delle consuete hemp e cannabis.

È sempre nel suo ufficio che, quasi cinquant’anni prima della teoria della finestra rotta, sbocciano le campagne mediatiche sulla cannabis come moltiplicatrice di violenza: basta fumarne un po’ ed ecco che un giovane tranquillo si trasforma in assassino a colpi di scure di padre, madre e fratelli[3]. Quando il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, mobilita scienziati e medici per contrastare la repressione indiscriminata della canapa e le dottrine che fanno della marijuana il primo passo sulla strada della dipendenza da droghe pesanti – è il celebre “rapporto La Guardia” –, la reazione del Bureau of Narcotics non si fa attendere: fioccano le denunce e l’American Medical Association subisce pressioni per svolgere ricerche consonanti con le posizioni governative.

Il breve tuffo nella storia del proibizionismo dimostra che la disciplina della cannabis è stata materia scottante e conflittuale sin dagli albori del dibattito: pressioni politiche, iperboli argomentative e una certa isteria (alla quale in alcuni momenti si sono contrapposte soltanto le provocazioni antiproibizioniste) hanno sempre caratterizzato la discussione.

Non meraviglia, dunque, che il mood contemporaneo non sia cambiato, anche nell’imminenza delle decisioni delle Corti sul c.d. referendum cannabis.

Vi si rassegna anche il Corriere della Sera: nella prima pagina del 18 novembre 2021, compare una lettera, dal titolo “No alla foglia di marijuana nel nostro tricolore”, con la quale il Comitato promotore del referendum è accusato di vilipendio al tricolore per aver utilizzato la foglia di canapa associata alla bandiera italiana nel logo della campagna.

Esiste, in ideale contrappunto con questo clima, una necessità di allontanarsi dagli scalpori, dalle propagande a qualsiasi obiettivo rivolte. Un bisogno di conoscenza scevro dai toni enfatici e dalle asserzioni di principio. Nel 1975, dalle colonne dello stesso quotidiano poco sopra citato, lo invocava Pier Paolo Pasolini: «il rapporto […] col fenomeno della droga può essere reso parlabile, razionalizzato, storicizzato»[4].

Proviamo, nel delineare i contenuti del referendum, a rimanere fedeli a questo impegno di razionalizzazione.

2. Denominazione, quesito ed effetti del referendum cannabis

Con ordinanza del 10 gennaio 2021 l’Ufficio centrale per il Referendum presso la Corte di Cassazione, ritenuto raggiunto e superato il numero di cinquecentomila sottoscrizioni valide (i comitati ne avevano portato oltre 600.000), ha dato via libera alla convocazione del referendum, che avrà la seguente denominazione: Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.

La Corte ha anche definitivamente cristallizzato il quesito sulla cui ammissibilità la Consulta si pronuncerà il prossimo 15 febbraio 2022:

«Volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” limitatamente alle seguenti parti:

Articolo 73 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva”;

Art. 73 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), comma 4, limitamento alle parole “la reclusione da due a sei anni e”;

Articolo 75 (Condotte integranti illeciti amministrativi), comma 1, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni”?».

Una schematica (ma inevitabilmente tediosa) ricostruzione del tessuto normativo inciso dal referendum abrogativo è indispensabile.

Come noto, l’art. 73, comma 1, del Testo unico in materia di stupefacenti (d’ora in avanti: TU), dopo l’intervento della sentenze nn. 32/2014 e 40/2019 della Corte costituzionale, è tornato a esistere nella formulazione in vigore prima delle modifiche del 2006: punisce, con la reclusione da sei a vent’anni e con la multa da euro 25.822 a euro 258.228, «chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dall’art. 75, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’art. 14».

Il comma 4 del medesimo articolo – anch’esso finito sotto la scure della sentenza della Consulta 32/2014 – stabilisce che «se taluno dei fatti previsti dai commi 1, 2 e 3 riguarda sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle II e IV previste dall’art. 14, si applicano la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 5.164 a euro 77.468».

In sostanza, il comma 1 dell’art. 73 incrimina condotte che riguardano le c.d. «droghe pesanti» della tabella I, del tipo eroina, cocaina, ecstasy (termini in parte a-tecnici, ma utili a comprendere). Il comma 4, viceversa, prescrive pene detentive e pecuniarie più lievi quando le medesime condotte abbiano ad oggetto le c.d. “droghe leggere”, tra cui appunto la cannabis e i derivati.

La disposizione dell’art. 75 del TU, viceversa, fuoriesce dal campo del penale e punisce con sanzioni soltanto amministrative l’illecito commesso da «chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope». Il ventaglio delle sanzioni comprende la sospensione o il divieto di conseguimento della patente di guida ed equipollenti (certificazioni relative a motoveicoli e ciclomotori), della licenza di porto d’armi, del passaporto e del permesso di soggiorno per motivi turistici.

Al fine di chiarire meglio quella che potrebbe essere la normativa di risulta, va subito specificato che la proposta referendaria non sfiora gli artt. 26 e 28 del TU – collocati nel Titolo III, dedicato alle «disposizioni relative alla coltivazione e produzione, alla fabbricazione, all’impiego ed al commercio all’ingrosso delle sostanze stupefacenti o psicotrope» –, i quali vietano, in difetto di specifiche autorizzazioni, la coltivazione nel territorio dello Stato delle piante comprese nelle tabelle I e II (cannabis compresa, dunque) e stabiliscono che chiunque coltivi in difetto di autorizzazioni «è assoggetto a sanzioni penali ed amministrative stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse».

Così riassunta la normativa toccata dai quesiti, si può azzardare la ricostruzione della disciplina che risulterebbe in caso di eventuale vittoria del referendum. Il quadro normativo derivato sarebbe il seguente:

– Depenalizzazione delle condotte di coltivazione c.d. “domestiche” e “rudimentali” delle piante di cannabis; in altri termini, la coltivazione ad uso personale non sarebbe più assoggettata a sanzioni di tipo penale, siano esse detentive o pecuniarie;

– De-carcerizzazione di tutte le condotte diverse dalla coltivazione, che riguardano la cannabis e i derivati, le quali non potranno essere punite con la reclusione da due o sei anni, ma solo con pena pecuniaria;

– Esclusione, in caso di illecito amministrativo correlato all’uso personale di qualsiasi sostanza, della sanzione della sospensione della patente e degli altri titoli abilitativi alla guida dei motoveicoli e dei ciclomotori.

L’intento sotteso al referendum, dunque, sembra chiaro: attenuare il rigore repressivo delle norme in tema di coltivazione e uso di droghe leggere, facendo fuoriuscire dalla sfera di applicazione della sanzione penale tout court la coltivazione della cannabis ad uso personale – per le altre sostanze pesanti, come vedremo, le cose stanno diversamente – e dal fuoco della sola sanzione detentiva (non della pena pecuniaria) le altre condotte aventi ad oggetto le droghe leggere.

Si persegue l’idea di coagulare in legge e stabilizzare l’esito, pur sempre aleatorio (e poco conformante le linee di azione delle agenzie di polizia), delle Sezioni Unite 12348/2019, per le quali la coltivazione della cannabis non costituisce reato quando, «in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto».

A tutti i comportamenti di uso personale, che già ora non costituiscono reato, non sarebbe inoltre più applicabile la sospensione della patente, ferme rimanendo tutte le altre ipotesi di sanzione amministrativa.

3. La sfida dell’ammissibilità

L’elencazione appena tracciata, apparentemente lineare, costituisce il prodotto di complessi processi interpretativi (naturalmente correlati alla portata abrogativa del referendum) che occorre sintetizzare al fine di cimentarsi – in chiave interrogativa e non profetica – col giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale.

Cominciamo col dire che è facile immaginare quali siano, sul piano teorico, i principali ostacoli all’ammissibilità dei quesiti: contrasto della disciplina di risulta con gli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano mediante la ratifica delle Convenzioni internazionali in materia di stupefacenti (convenzione di New York del 1961 e relativo Protocollo di Emendamento del 1972, Convenzioni di Vienna del 1971 e 1988); incoerenza e contraddittorietà del trattamento sanzionatorio derivato.

Si tratta di temi già messi sul piatto del dibattito pubblico: a volte in termini propagandistici, altre volte con accuratezza scientifica.

Con riferimento al limite derivante dalle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, è indubbio che l’art. 36, paragrafo 1, lett. a) della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 – emendata nel 1972 e ratificata con legge 412/1974 – prescriva alle Parti contraenti, compatibilmente con le proprie norme costituzionali, di adottare le misure necessarie affinché le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti, cannabis compresa, siano oggetto di sanzione penale.

In particolare, la disposizione in questione stabilisce che tutte le condotte – anche la coltivazione – non conformi alle disposizioni della Convenzione «siano considerate infrazioni punibili qualora siano commesse intenzionalmente e sempreché le infrazioni gravi siano passibili di una pena adeguata, in particolare di pene che prevedono la reclusione o altre pene detentive».

Ad una lettura di primo acchito parrebbe di trovarsi di fronte a un macigno sul cammino del referendum. Nonostante il vincolo internazionale, tuttavia, sono stati proprio i referendum a cambiare il volto dell’America proibizionista: ben diciannove Stati USA – ventotto se si considerano anche le liberalizzazioni a scopo terapeutico – hanno legalizzato la produzione, il commercio e il consumo di cannabis, seguendo l’esperienza pioneristica dei referendum del 2012 in Colorado e Washington.

Non basta, perché la lista dei Paesi che a livello mondiale hanno posto fine al proibizionismo della cannabis, in modo più o meno assoluto, si allunga di giorno in giorno. Dopo l’esperienza dell’Uruguay di Mujica (2014), sulla strada della piena legalizzazione si è aggiunto un pezzo da novanta come il Canada, che nel 2018 è stato il primo Paese del G20 a consentire e regolare l’uso ricreativo della sostanza. Sul versante vecchio continente va tenuta in considerazione la recente svolta antiproibizionista di Malta (2022).

Sono tutti Paesi responsabili di illeciti internazionali?

Le cose, ovviamente, stanno in maniera diversa e a spiegarle è il mutato approccio sulla natura, vincolante o flessibile, delle Convenzioni internazionali in materia di stupefacenti. All’esito della Speciale Sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulle droghe (UNGASS 2016), la flessibilità delle convenzioni può considerarsi un dato acquisito: le convenzioni «consentono agli Stati membri una sufficiente flessibilità per progettare e attuale politiche nazionali in materia di droga in base alle loro priorità ed esigenze, in linea con il principio della responsabilità comune e condivisa e il diritto internazionale applicabile»[5].

Al di là della riconosciuta flessibilità delle Convenzioni – tale da giustificare quello che è stato definito un vero e proprio “rimpatrio” delle politiche penali in materia di stupefacenti – è opportuno segnalare che il menzionato art. 36 della Convenzione unica impone di adoperare la pena detentiva soltanto con riferimento alle infrazioni gravi e che la stessa disposizione, alla successiva lett. b) dello stesso paragrafo, fa salva la possibilità di «sottoporre le persone utilizzanti in modo abusivo a misure di cura, correzione, post-cura, riabilitazione e reinserimento sociale», lasciando così ampio margine allo Stato contraente di disporre sanzioni diverse da quelle penali.

La stessa Corte costituzionale – nel pronunciarsi per l’inammissibilità di precedente proposta referendaria mirante ad abrogare tutti i divieti di coltivazione di cannabis e tutte le sanzioni amministrative di cui all’art. 75 TU – ha fornito un’interpretazione chiara della portata dei divieti delle Convenzioni, precisando che «non vi è dubbio che, alla stregua delle convenzioni internazionali di Vienna e di New York, la canapa indiana e i suoi derivati rientrano tra le sostanze stupefacenti la cui coltivazione e detenzione, anche per fini di consumo personale, deve essere qualificata come reato, o quantomeno, sottoposta a misure amministrative riabilitative e di reinserimento sociale diverse dalla sanzione penale» (Corte cost. sent. 27/1997, corsivo mio).

Tra i molteplici vincoli sopra elencati la proposta referendaria sembra muoversi con i piedi di piombo per passare le forche caudine della Corte costituzionale.

Il mantenimento del divieto di coltivazione industriale di cui ai citati artt. 26 e 28 TU, infatti, nonostante l’espunzione del termine «coltiva» dall’art. 73, comma 1 del medesimo TU, pare conservare un’adeguata previsione di incriminazione di tutte le coltivazioni massive (a fine di grande spaccio potremmo dire, ancora una volta in termine a-tecnico) sia di droghe pesanti sia di cannabis: le prime continueranno a essere punite con pena detentiva, le seconde con pena pecuniaria.

Ad una lettura attenta dei quesiti, inoltre, anche le coltivazioni “domestiche” di piante da cui estrarre droghe pesanti rimarranno punibili con il carcere: se non a titolo di coltivazione, quanto a meno a titolo di produzione, fabbricazione e detenzione illecita.

A differenza di quanto accade con la cannabis, infatti, per ottenere cocaina ed eroina dalle rispettive piante non è sufficiente coltivare, ma è necessario compiere ulteriori passaggi di depurazione, sintetizzazione, trasformazione, produzione, fabbricazione; tutti passaggi che, così come la detenzione illecita, anche dopo l’eventuale approvazione del referendum, continueranno a essere puniti con la reclusione quando avranno ad oggetto piante della tabella I. Il coltivatore domestico di piantine di oppio e coca, se non vuole incorrere nel carcere, potrà solo dedicarsi al giardinaggio.

Non va dimenticato, inoltre, che anche con riferimento alla cannabis, ogni condotta eccedente la coltivazione ad uso personale rimarrà punibile a livello penale con la pena pecuniaria, posto che il referendum chiede all’elettorato di abrogare soltanto le sanzioni detentive di cui all’art. 73, comma 4, TU.

Va aggiunto che, tra le tante sanzioni amministrative previste dall’art. 75 TU in caso di uso personale, solo la sospensione della patente verrebbe abrogata. Tutto il rimanente quadro di punizione “infra-penale” rimarrebbe inalterato. Non pare inutile ribadire che l’eliminazione di quella sanzione non comporta alcuna espunzione dei reati e delle pene previste per coloro che si mettono alla guida di un veicolo sotto l’influsso di sostanze psicotrope.

In sostanza, a prescindere dal riferimento alla flessibilità delle convenzioni, il mantenimento delle sanzioni penali per le coltivazioni massive, la conservazione della pena detentiva per le condotte necessarie a ottenere droghe pesanti e di quella pecuniaria per tutte le altre condotte di droga leggera sono fattori che, verosimilmente, agiscono per mantenere il quesito referendario nei limiti delle cornici delle internazionali. La Corte dirà quanto e come l’obiettivo è stato centrato.

Rimane un ultimo punto relativo alle contraddizioni del quadro sanzionatorio. In particolare, l’abrogazione dall’art. 73, comma 4, TU delle pene detentive inerenti alle condotte aventi ad oggetto droghe leggere, lascerebbe sprovviste di reclusione anche le ipotesi aggravate previste dall’art. 80 del medesimo decreto, con il rischio di veder punito meno gravemente un fatto riguardante ingenti quantità di droga leggera rispetto a un fatto di lieve entità relativo a droghe pesanti. E con il pericolo, ovviamente, di sottrarsi al perimetro convenzionale che impone la pena detentiva per le violazioni gravi.

Sarà la Corte, nel porsi il problema, a valutare se i necessari interventi legislativi post-referendum saranno soltanto integrativi, di mero restyling, oppure di totale rivisitazione dell’impianto sanzionatorio con, in quest’ultima evenienza, declaratoria di inammissibilità.

Con riferimento al carattere grave delle violazioni, viceversa, potrebbe soccorrere la scelta fatta a monte dal legislatore italiano, ribadita dalla Corte costituzionale nel 2014, di differenziare il trattamento sanzionatorio per tabelle e di prevedere come meno gravi i fatti relativi alle droghe leggere.

Si tratta, peraltro, di una scelta operata quando ancora la cannabis figurava nella tabella IV della Convenzione unica, quella delle sostanze più pericolose e dannose. Il 2 dicembre 2020, su indicazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le Nazioni Unite hanno eliminato la canapa dalla tabella IV.

Da questo passaggio storico può prendere le mosse una valutazione della posta in gioco complessiva del referendum.

4. I temi del voto

Va rispettata la premessa (promessa) metodologica di questa riflessione: tenersi lontano dalle versioni caricaturali che dipingono il referendum come terreno di scontro tra fautori della “cultura dello sballo” (categoria pseudo-sociologica diffusa, ma eterogenea e dubbia) e crociati del proibizionismo. Ad essere chiamate in campo, viceversa, sono visioni diverse, complesse e in parte sperimentali degli assetti normativi del governo della cannabis. Compito di questa Rivista, soprattutto in questa fase, è provare a scrutarle entrambe.

Inutile negare che la politica mondiale delle droghe, sul terreno della canapa, ha dismesso l’abito da guerra. Come anticipato, nel gennaio 2019, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha pubblicato sei raccomandazioni sulla cannabis, caldeggiando la rimozione della stessa dalla Tabella IV della Convenzione unica del 1961 – quella che contiene le sostanze «particolarmente dannose e di valore medico o terapeutico estremamente ridotto» – e l’inserimento di alcune preparazioni a base di canapa nella Tabella III, comprendente sostanze con valore terapeutico e basso rischio di abuso.

Il 2 dicembre 2020, la Commissione droghe delle Nazioni Unite (Cnd), con 27 voti a favore (Italia compresa), ha accolto ufficialmente questa raccomandazione. È un cambiamento di paradigma del quale occorre tener conto, considerato che trae origine dalle evidenze scientifiche a disposizione di quell’Organizzazione Mondiale della Sanità alle cui raccomandazioni in tema di vaccinazione preventiva da Covid-19, nella generalità dei casi, si invita a prestare osservanza senza sovrapporre schermi etici.

La svolta, comunque la si valuti, ha determinato la messa in crisi dell’approccio normativo di tipo puramente repressivo. Si può affermare, anche sulla scia delle accennate politiche nazionali di alleggerimento del quadro sanzionatorio per le droghe leggere, che mai è stato così vivace il dibattito sulla necessità di un ripensamento delle linee guida delle politica della droga.

Un caso eclatante riguarda il rapporto del gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie presentato alla 47° sessione (21 giugno – 9 luglio 2021) dello Human Rights Council delle Nazioni Unite. Oggetto di indagine sono state proprio le detenzioni arbitrarie determinate dalle politiche sulle droghe. L’analisi spietata, numeri alla mano, offre spunti per capire come la lotta al narcotraffico continui a concentrarsi troppo spesso sull’anello debole della catena, quello del consumatore. A divenire oggetto di critica non sono soltanto gli arresti e le detenzioni, ma tutti quegli atti prodromici – test antidroga, perquisizioni – che, oltre a essere ancora guidati da un profiling non insensibile alle questione di classe e razziali, conducono spesso al carcere il consumatore e non il grande spacciatore. Per questo motivo, le raccomandazioni finali sono quasi trancianti: decriminalize the use, possession, acquisition or coltivation of drugs for personal use.

Colpiscono, in quel rapporto, i dati che riguardano l’Italia. Se il tasso medio mondiale di incarcerazioni per droga è pari al 21,65%, il tasso italiano, a giugno 2021, arrivava al 35,91%: quasi il doppio della media europea (18%) e di quella statunitense (20%)[6].

Una lettura più utile di queste statistiche, per quel che si verifica sul territorio del nostro Paese con specifico riferimento alla cannabis, può scaturire dal loro confronto con le informazioni contenute nel rapporto Relazione annuale 2021 della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga[7].

Nella stessa prefazione, si dà atto di un sensibile calo dei sequestri di hashish e marijuana, ma si specifica che, in controtendenza, il dato relativo alle piante «mostra invece uno scostamento positivo, essendo raddoppiato il numero di quelle cadute in sequestro (414.396) rispetto all’anno precedente» (confronto 2020/2019). Le operazioni di polizia antidroga nel 2020, inoltre, sono state nel complesso 22.695: di queste, quelle finalizzate al contrasto dei derivati della cannabis sono state ben 12.066. Le stesse proporzioni si ritrovano nelle denunce e negli arresti. All’occhio di chi frequenta le aule non sfugge che a cadere nelle maglie delle agenzie di polizia – nonostante qualche cambiamento nelle priorità degli arresti – sono anche tanti coltivatori domestici, con buona pace delle Sezioni Unite sopra richiamate.

Cosa raccontano questi numeri? Nell’ottica di chi ha promosso la consultazione referendaria, molto semplicemente, il fallimento delle politiche repressive. La cannabis continua a essere diffusa, il mercato illegale dominato dalle mafie prospera e a farne le spese, anche in termini di tutela della salute, è ancora troppo spesso il consumatore, indotto a diventare delinquente e a comprare in un mercato nero dove il pusher gli mette immediatamente a disposizione la possibilità del salto dalla cannabis alle droghe pesanti. Non trascurabili, sempre in quest’ottica, i costi in termini di appesantimento e malfunzionamento della giustizia penale.

Diversa, come naturale, la ricostruzione del fronte avverso alla campagna referendaria, per il quale quei numeri rappresentano il sacrificio inevitabile per mantenere divieti effettivi e funzionali paletti pedagogici attorno al campo minato delle droghe leggere. Il rischio di una legalizzazione, in quest’ordine di ragionamenti, è individuato nella circostanza che l’abolizione del divieto legale – che giungerebbe dopo il suo ridimensionamento a livello giurisprudenziale con le più volte ricordate Sezioni Unite – sarebbe un definitivo segnale di sdoganamento per l’uso di sostanze che comunque producono assuefazione e che, soprattutto, costituiscono un trampolino di lancio verso le sostanze psicoattive più pericolose. È la c.d. “teoria del passaggio” (gateway drug theory).

Non è questa la sede per indagarla. È sufficiente accennare che un dibattito serio sul punto deve reciprocamente rispettare i punti di vista: l’esperienza di chi vive a contatto con i tossicodipendenti nelle comunità[8] e l’analisi di chi constata che, a fronte della crescita nei fatti dell’uso di marijuana, il pericolo di passaggio si annidi soprattutto nello spacciatore all’angolo della strada, nel carcere e nell’ingresso nel circuito chiuso dello stigma.

Colpisce che dal dibattito su queste tematiche la politica istituzionale si tenga lontano, mostrando una prudenza ingiustificabile. Le oltre seicentomila firme raccolte e il dibattito sui pro e contro della proposta referendaria animano le passioni civili e fanno nascere comitati, ma non intaccano il silenzio dei partiti. Eppure, come testimonia la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia (anno 2021)[9] «il mercato delle sostanze stupefacenti muove attività economiche per 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 39% attribuibile al consumo dei derivati della cannabis». Trascurare il problema, omettere di prendere posizione, qualunque essa sia, contribuirà ad allontanare la politica dei partiti dai problemi concreti e dalla preoccupazioni di tante generazioni, soprattutto le più giovani. E questa è l’unica conclusione davvero tossica.

Note
 
[1] La calzante espressione è in F. Corleone, G. Zuffa, Verso un cambio di paradigma. Nel mondo, forse anche in Italia, prefazione all’edizione italiana di Transform Drug Policy Foundation, After the War on Drugs: Blueprint for Regulation, (2009), Ediesse, Roma, 2011, p. 15.

[2] È il celebre Marihuana Tax Act, siglato dal Presidente USA Roosevelt il 14 giugno 1937, che, pur non vietando espressamente il consumo di marijuana, dette il via al proibizionismo attraverso l’imposizione fiscale e una fitta rete di controlli burocratici.

[3] In questi termini un articolo di Harry Anslinger pubblicato su The American Magazine nei giorni dell’approvazione del Marihuan Tax Act, successivamente ripubblicato a febbraio 1938 su The Reader’s Digest con il titolo Marijuana – Assassin of Youth. In quello stesso periodo, nelle sale cinematografiche, un film raccoglieva lo stesso titolo: la marijuana diventava Assassin of Youth.

[4] P.P. Pasolini, La droga: una tragedia italiana, in Corriere della Sera, 24 luglio 1975.

[5] La traduzione, non ufficiale, è di un passaggio in https://www.undoc.org/documents/postungass2016/outcome/V1603301-E.pdf, rinvenibile anche in G. Zuffa, Legalizzazione della cannabis e trattati internazionali sulla droga, in www.fuoriluogo.it, 26 giugno 2018.

[6] L’analisi più interessante del Rapporto si trova in L. Fiorentini, M. Perduca, Onu, la legge sulle droghe viola i diritti umani, in www.fuoriluogo.it, 22 dicembre 2021, con allegato il testo del rapporto.

[7] Relazione Annuale della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga 2021 su dati 2020, disponibile su https://antidroga.interno.gov.it

[8] Posizioni in parte riassunte nel confronto tra Vinicio Albanesi e Marco Perduca, a cura di Antonio Carioti, Legalizzare la cannabis? Sì, è giusto. No, fa male, in Corriere della Sera – La Lettura, 12 dicembre 2021.

[9] Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, anno 2021 (dati 2020), a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Politiche Antidroga, rinvenibile per esteso in http://www.politicheantidroga.gov.it

* Giudice del Tribunale di Nuoro

Fonte: Questione Giustizia

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